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Politica e tv: l’unione che cambiò la società

Sessant’anni e oltre. Un tempo consistente se il metro di confronto fosse il cambiamento apportato dalla modernità. La distanza intercorsa tra l’avvento della tv e la sua incidenza sul tessuto sociale non è questione di tempi. Piuttosto di modi, di merito, di compensazione tra richieste dettate dal gusto popolare e adeguamento al passo della storia. Perché, in fondo, il cambiamento viene dettato dalla maturazione di una società in una direzione o nell’altra. Nel caso del nostro Paese, già nell’immediato dopoguerra, il boom economico aveva accresciuto la consapevolezza del cittadino del suo ruolo nell’edificazione del futuro, tra partecipazione attiva e adeguamento a stili di vita che, forse per la prima volta, comprendevano realmente un tempo libero da dedicare ai propri interessi. In primis, quelli legati allo sviluppo industriale, tecnologico e persino culturale. Perché, con la società rinnovata dalla scelta repubblicana, il ruolo del cittadino tornava a essere attivo anche nella costruzione degli organi decisionali.

La novità repubblicana

La Repubblica aveva portato una concezione nuova del rapporto tra popolazione e politica. Una percezione del sostegno partitico e degli ideali teorico-pratici di questa o quella corrente che, durante gli anni del fascismo, era stata forzatamente accantonata o maturata clandestinamente, negli argini imposti dal regime dittatoriale prima e dal confronto con la dura realtà bellica poi. E se gli anni Cinquanta avevano sostanzialmente assorbito l’impatto del desiderio del mondo nuovo consegnando alla nuova classe dirigente una pietra angolare del tutto nuova, come la Costituzione repubblicana, l’intuizione delle potenzialità dei nuovi mezzi di comunicazione di massa non tardò molto a manifestare i propri effetti. Il colpo di gong arriverà già l’11 ottobre 1960, quando per gli italiani in grado di esibire un televisore in casa, divenne possibile fruire la vita politica in modo quasi diretto, assistendo alle sei ore e mezza di trasmissione che garantiva la messa in onda di “Tribuna elettorale”.

La nascita di “Tribuna elettorale”

L’inizio fu circoscritto. Apparentemente lontano dalla novità galoppante che stava caratterizzando l’Italia del boom. L’obiettivo della trasmissione, infatti, era quello di avvicinare gli elettori (ruolo sul quale ora si ragionava in un contesto anche altro rispetto alla decisione sull’ordinamento del Paese, più prettamente politico) alle elezioni amministrative del novembre 1960, di fatto in uno dei primi esercizi di reale democrazia. Una tribuna, appunto, moderata da un giornalista (il primo fu Gianni Granzotto, già pioniere dei servizi in onda al telegiornale) e aperta ai vari schieramenti, utile ai cittadini per rafforzare la propria idea oppure per maturarne di nuove. Di sicuro, all’intento nobile dell’apertura delle aule alle masse, si affiancava l’adozione di un nuovo strumento di propaganda. Lontano anni luce da ciò che si era visto nella prima metà del Novecento, veicolato attraverso quello che, già allora, si proponeva come reale strumento di diffusione e avvicinamento al tessuto elettorale.

Il successo di “Tribuna elettorale”

“Tribuna elettorale” andava, di fatto, a rivedere l’approccio che, fin lì, era stato riservato allo strumento del comizio. Un imprinting diretto con l’elettorato, in una concezione che vedeva nell’ideale agorà l’esercizio migliore della democrazia. L’adeguamento del progresso alla nuova vita politica, invece, garantiva in prospettiva un rapporto quasi diretto tra cittadino e rappresentanza parlamentare. Quello che, in qualche modo, serviva alla popolazione stessa per sentirsi realmente parte attiva dei processi decisionali del Paese, perlomeno in prossimità delle elezioni, in un momento storico in cui la vicinanza storica del primo suffragio universale aveva tenuto elevata la partecipazione verso l’esercizio della politica. Prova ne furono i sette milioni di telespettatori che seguirono, da remoto, il debutto di “Tribuna elettorale”. E, ancor di più, lo “share” registrato con le puntate successive, che non impiegò molto a raddoppiare nonostante la lunghezza della trasmissione e la sostanziale ripetitività del plot, che prevedeva una conferenza, un dibattito e un sunto del presidente del Consiglio in carica.

Tribuna politica

Meno di un anno (6 aprile 1961) e si ebbe già un’evoluzione, con l’avvento di “Tribuna politica” e del suo format innovativo nonostante l’impostazione generale fosse la stessa dell’immediato predecessore. Un ciclo di ventinove puntate, impostate sullo schema ormai classico conferenza-dibattito, ancora estremamente apprezzato da un pubblico che, complice anche il limitatissimo ventaglio di scelte, aveva mantenuto un gradimento abitudinario. Abbastanza per far sì che la tribuna, con tutte le sue sfaccettature politiche, continuasse a esercitare una buona attrattiva verso la vita politica del Paese.

Verso tempi nuovi

Del resto, la direzione intrapresa dall’Italia del Secondo dopoguerra sarebbe stata chiara già da lì a pochi anni, quando la ventata sociale del Sessantotto aprì la stagione del fermento prima e della violenza poi. Forse anche per una prima massificazione della politica, resa più accessibile e, per questo, meglio assorbita da un Paese ancor giovane nella sua nuova veste costituzionale. Senza contare che il mondo politico stesso, reso fruibile e prossimo, diventerà in breve un argomento di amalgama sociale. Con la tribuna che, da emblema del tempo nuovo, finirà per subire persino una parodia fantozziana di successo, laddove il largo accesso all’informazione avrebbe finito per mandare in crisi paranoica l’elettorato che tanto l’aspettava.

Damiano Mattana

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