La “Pistantrofobia” consiste nella paura, oggi molto diffusa, di fidarsi del prossimo, ritenuto (generalizzando al massimo) sempre un nemico o un traditore da evitare, per limitare i danni. Il termine deriva dal greco “pistós” (fede, dare fede) e “phobia” (paura). Frutto di esperienze vissute, chi ne soffre tende a focalizzare solo circostanze negative; trova, come possibile soluzione, l’evitamento degli altri e, in una sintomatologia depressiva, il ritiro sociale.
La sfiducia nel prossimo può scaturire dal voler offrire al mondo, a tutti i costi, l’immagine di autosufficienza e di totale controllo delle situazioni, al punto di poter fare a meno di chiunque. Tale presunzione di onnipotenza si scontra con la realtà e provoca delle delusioni profonde, a volte mascherate per difendere l’immagine da duro, altre volte fonte di grave disagio sociale. L’equazione, in questi casi, infatti, tende a “specchiare” la sfiducia verso gli altri in un’altra, analoga, sottile, subdola, poco avvertita ma reale, nei propri confronti. L’eccessiva sicurezza di sé, abbinata a un costante scetticismo verso gli altri, si ritorce, come un boomerang, verso la propria autostima e porta a non fidarsi di se stesso.
Il ragionamento, prevenuto, nel caso della pistantrofobia, si risolve in “tutti gli altri sono cattivi, mi causeranno dei danni, sta a loro dimostrare il contrario”. Da questa valutazione, condotta, per difesa, agli eccessi, sembra ci si voglia coprire da qualsiasi amarezza. In più, ne deriva “se gli altri sono cattivi, l’unico buono sono io”: il primo assioma dell’individualismo.
Molte volte, la semplificazione concettuale spinge a considerare chi si fida del prossimo come uno sprovveduto, mentre il più furbo sa come tenersi a distanza da chi lo vuol buggerare; si contrappone la stoltezza all’intelligenza. Una persona più propensa a fidarsi, salvo i casi palesi di raggiro, non è da considerarsi meno intelligente da colui che si ritiene più furbo. Anzi, la maggiore apertura mentale del primo può costituire un’opportunità a cui il secondo rinuncia senza conoscere. Una notevole predisposizione intellettuale, inoltre, si lega, inevitabilmente, a un miglior approccio cognitivo. La chiusura sociale, invece, implica meno elaborazione cognitiva.
Un atteggiamento ostile e prevenuto verso la comunità è l’ingrediente peggiore per non costruire quella “pace” così tanto evocata a parole. Le fondamenta del dialogo si basano su aspettative e altruismo, al contrario, la chiusura spinge verso l’individualismo, l’egoismo e l’indifferenza.
San Paolo VI, nel Messaggio del Santo Padre per la celebrazione della II Giornata della Pace, il I gennaio 1969, affermò “La Pace è un bene supremo della vita dell’uomo sulla Terra, un interesse di primo grado, un’aspirazione comune, un ideale degno dell’umanità padrona di sé e del mondo, una necessità per mantenere le conquiste raggiunte e per raggiungerne altre […] Perché la Pace è la sicurezza, la Pace è l’ordine. Un ordine giusto e dinamico, diciamo, da costruire continuamente. Senza la Pace nessuna fiducia, senza fiducia nessun progresso. Una fiducia, diciamo, radicata nella giustizia e nella lealtà”.
Il Cardinale Matteo Maria Zuppi, presidente della CEI, è l’autore (insieme al giornalista e saggista Lorenzo Fazzini) del testo “Odierai il prossimo tuo” (sottotitolo “Perché abbiamo dimenticato la fraternità. Riflessioni sulle paure del tempo presente”), pubblicato da “Edizioni Piemme” nel novembre 2019. Parte dell’estratto, recita “Ama il prossimo tuo come te stesso: è il comandamento evangelico forse più difficile da rispettare oggi, in un Paese incattivito, dove i rapporti e la comunicazione sono dominati dall’aggressività, le porte delle case sono chiuse agli estranei, le donne e gli immigrati sono vittime frequenti di violenze verbali e fisiche. Dove l’inimicizia e le fratture si propagano anche all’interno della comunità dei credenti. Come uomo di Chiesa, Matteo Maria Zuppi ritiene urgente affrontare la questione dell’odio, un sentimento che ci disumanizza e ci condanna alla solitudine. Tanto più se lo percepiamo come forza capace di proteggerci dalle minacce e ripagarci delle ingiustizie subite”.
Il 20 aprile 2023, l’Istat ha pubblicato il Rapporto Bes 2022 (Il Benessere Equo e Sostenibile in Italia); nel capitolo “Relazioni sociali”, visibile al link https://www.istat.it/it/files//2023/04/5.pdf, fra i numerosi dati, si legge “Se in Italia i livelli di soddisfazione verso le reti familiari e amicali sono molto alti, lo stesso non accade per la fiducia che le persone sono disposte ad accordare ai loro concittadini verso i quali emerge una diffusa diffidenza. Nel 2022 il 24,3% delle persone di 14 anni e più ritiene che gran parte della gente sia degna di fiducia, dato in leggera flessione rispetto all’anno precedente (era il 25,5% nel 2021). Questa flessione interrompe il trend crescente iniziato nel 2018 e che nel 2021 aveva toccato il valore più alto di tutta la serie storica; tuttavia il valore del 2022 resta superiore ai livelli pre-pandemia”.
Esperienze e delusioni spiacevoli lasciano una comprensibile amarezza ma non possono costituire un blocco protettivo, tradotto in un rifiuto del prossimo. Le crepe di questo muro comincerebbero presto a incrinare ogni difesa, con ripercussioni negative per sé e per gli altri. Particolare apprensione si manifesta nel momento in cui una conoscenza superficiale può crescere pian piano: la profondità di un rapporto sociale, lavorativo, sentimentale si può arrestare proprio perché si teme di essere maggiormente delusi. L’accortezza, come l’ansia e la vergogna, ha una funzione protettiva e aiuta l’essere umano a prevenire i pericoli; nel momento, tuttavia, in cui diviene esagerata e sproporzionata, assume i caratteri della fobia e limita l’individuo.
Alla formazione di tale atteggiamento, così negativo, concorrono esperienze infantili, in famiglia, a scuola, con i pari oppure eventi traumatici, situazioni di particolare vulnerabilità e disagio. Nei primi anni di vita, uno scarso attaccamento genitoriale o promesse non mantenute dall’adulto, sono fattori scatenanti. L’esempio ricevuto in famiglia, di apertura o chiusura interpersonale, è uno schema che il bambino fissa in memoria e tende a emulare.
Il bullismo è uno degli aspetti, traumatici, che conducono la vittima a chiudersi in se stessa, a soffrire e ad avere un’opinione negativa nel prossimo: di chi lo tiranneggia e degli altri che, complici, sghignazzano durante gli atti vessatori. L’evitamento di persone e situazioni sociali, finisce per isolare l’individuo sempre di più, anziché proteggerlo: non avrà la possibilità di smentire e rivedere le proprie catastrofiche valutazioni e non potrà costruire sane esperienze interpersonali. La convinzione è radicata, al punto che si immagina, dall’altra parte, un atteggiamento “scientificamente ostile”, ossia ben congegnato e premeditato, da individui che pianificano la propria cattiveria. Non credere, più, a nessuno, agli altri, a se stesso: questo è il quadro cinico, triste a cui si può pervenire.
La sfiducia verso tutti implica anche una generalizzazione infondata, impossibile e poco costruttiva. La persona brillante sa distinguere, valutare e adeguarsi alle circostanze senza essere travolto, sa che l’altro non è una fotocopia di sé e, anche per questo, va capito.
Alla base c’è la paura, in particolare quella di non essere compresi e capiti per la propria sensibilità, le opinioni e le emozioni. La comprensione reciproca è fondamentale per la socialità ma non deve essere considerata terminale. Occorre mettere in conto la possibilità, a volte, di non capire o di non essere compresi; la comunicazione, verbale o non verbale, non è sinonimo di perfezione e assolutezza; in tal caso, a colmare eventuali lacune o interstizi della comprensione, vi è il dialogo. Non si può pretendere di essere capiti sempre al 100% e da tutti: gli altri hanno codici di lettura e ricezione non identici a chi emette.
Le relazioni sociali non sono partite di bilancio e non devono sempre corrispondere all’ideale (visto, peraltro dalla propria ottica) pareggio nel dare/avere. La vorticosità e la fretta del vissuto quotidiano, hanno ripercussioni anche sulle relazioni umane, così impoverite, ridotte all’osso, spesso poco fondate e, quindi, solo di comodo. La fugacità dei rapporti, di ogni tipo, impoverisce la socialità. Al contrario, una graduale apertura, da far crescere quotidianamente, seleziona automaticamente le relazioni più sicure. Nell’era del “tutto o niente”, anche il prossimo è frutto di valutazione quantitativa, non qualitativa.
La paura non rende il paziente accettabile agli altri e, al tempo stesso, non lo dispone ad accogliere. Spesso sottovalutata, la fobia non è riducibile a semplicistiche forme di antipatia o di incomprensione verso qualcuno. In quest’ottica assolutistica e intransigente, del bianco o nero, infatti, il disturbo tende ad annullare la socialità e l’alterità, proprio le condizioni essenziali della comunità spiritualmente fondata.
Un atteggiamento ipercritico non coglie le sfumature e le ricchezze personali e del prossimo, tende a giudicare ogni minimo aspetto, a non perdonare e a scorgere in modo offuscato la trave presente nel proprio occhio. La sfiducia alimenta (e ne è alimentata) il distacco e la divisione, nega il dialogo, la collaborazione, il confronto, in sintesi l’altro.