“Un senso di giustizia diffuso e la consapevolezza che le piccole azioni personali possano creare un impatto positivo concreto”: è questo il motivo che spinge due giovani volontari di Amka Onlus in Congo. Elena Merlo, 29 anni, di San Donà di Piave (VE), esperta di comunicazione nei campi della sostenibilità e dell’innovazione sociale e culturale; Guglielmo Rapino, 29 anni, di Chieti Scalo (CH), legale per l’inclusione sociale e cooperante, attualmente project manager per i programmi di AMKA Onlus in Congo (RD). Nel Paese, ricco di risorse minerarie ma ugualmente povero, i volontari cercano di sostenere progetti scolastici e sanitari.
Come nasce l’Amka Onlus?
“AMKA nasce nel 2001 dalla volontà di mettere a disposizione delle comunità congolesi dell’area di Mabaya, nella regione del Katanga, strumenti sociali ed economici utili per incentivare uno sviluppo sostenibile ed integrato. Da allora l’associazione è cresciuta, arrivando a realizzare progetti di sviluppo anche in Guatemala e creando impatto positivo nelle aree più importanti per la crescita sociale ed economica: l’educazione di base, la salute, la sicurezza alimentare e l’empowerment delle comunità”.
Dove opera e quali attività svolge?
“Attualmente AMKA opera nella Repubblica Democratica del Congo, nella regione del Katanga, in un’area composta da circa 30 villaggi nella zona rurale a sud di Lubumbashi, e in Guatemala, in particolare nella regione del Petèn. Si occupa principalmente di garantire istruzione primaria alle fasce più giovani della popolazione, offrire cure mediche di base, realizzare programmi di lotta alla malnutrizione e di sicurezza alimentare e stimolare progetti di micro-imprenditoria in particolar modo con le donne”.
Che progetti porta avanti in Congo?
“In Congo AMKA gestisce in totale quattro scuole primarie, due centri di salute e una unità nutrizionale. Inoltre, attraverso un’equipe composta esclusivamente da personale locale porta avanti un’attività costante di accompagnamento alimentare domiciliare nei villaggi, rendendo disponibili a famiglie con bambini malnutriti unità nutrizionali e percorsi di sensibilizzazione ai principi alimentari di base. Infine, promuove lo sviluppo di attività produttive principalmente nel campo dell’agricoltura e del piccolo allevamento. L’obiettivo è quello di agire in maniera integrata nei settori che possono concretamente contribuire alla crescita delle comunità locali, lavorando sempre a stretto contatto con gli stessi beneficiari dei progetti”.
Perché serve ampliare l’impianto idrico del centro di salute di Kanyaka?
“Attualmente il pozzo del villaggio di Kanyaka, dove ha sede il principale centro di salute gestito da AMKA, non è funzionante. La mancanza di acqua corrente rende molto difficili le attività svolte dal centro e rappresenta un grave limite e problema per la diffusione del contagio dell’epidemia Covid-19 e di altre malattie diffuse nella zona. La maggior parte delle persone del villaggio, infatti, si rifornisce d’acqua direttamente al fiume, esponendosi continuamente al rischio di sviluppare malattie quali la malaria e la febbre tifoide. L’arrivo di acqua corrente e potabile nel villaggio di Kanyaka permetterebbe, quindi, di migliorare le condizioni generali di salute e vita delle oltre 300 famiglie che vivono nella zona”.
Perché nonostante le risorse energetiche, il Paese è così povero?
“È il risultato di anni di speculazione internazionale e politiche (neo)coloniali. La maggior parte delle aziende che gestiscono le miniere e le attività estrattive sono straniere, in particolar modo australiane e cinesi, e la popolazione locale praticamente non beneficia in alcun modo dei ricavi provenienti dalle diverse attività. È paradossale: lavoriamo in vari villaggi sprovvisti di qualsiasi servizio di base, a cominciare dall’elettricità, eppure attraversati dai cavi dell’alta tensione diretti verso lo Zambia. In questa immagine c’è tutto il dramma di un paese in ginocchio che quotidianamente viene utilizzato come bacino di rifornimento per aziende multinazionali e paesi esteri senza averne beneficio. Il nostro intervento mira a creare un know-how capace di stimolare un’autonomia economica e sociale. Solo così il Congo potrà sviluppare consapevolezza e capacità per contrastare i grandi centri di interesse speculativo stranieri e gestire indipendentemente le proprie risorse”.
Cosa spinge due giovani a percorre centinaia di chilometri per aiutare il prossimo?
G: “Un senso di giustizia diffuso e la consapevolezza che le piccole azioni personali possano creare un impatto positivo concreto. Allo stesso tempo, c’è una curiosità enorme per tutto ciò che esce fuori dall’ordinario, dal conosciuto, dall’abitudine. Essere qui è un po’ come inseguire un orizzonte che ogni giorno si sposta un po’ più in là”.
E: “Sicuramente c’è il desiderio di staccare le mani dalla tastiera per sporcarle di terra rossa e gli occhi dallo schermo per riempirli di volti, colori e nuovi orizzonti. Ma più di tutto, c’è la convinzione che nei piccoli progetti sviluppati dal basso ci sia un potenziale straordinario che credo vada raccontato e valorizzato il più possibile”.
Qual è l’esperienza che più di altre vi è rimasta impressa durante il vostro lavoro di volontari?
G: “La missione qui in Congo è appena iniziata e credo che di esperienze nei prossimi sei mesi ne raccoglieremo ancora tante. Tra quelle vissute nelle prime settimane, ce n’è una in particolare che mi è rimasta addosso. Io ero stato qui in Congo con AMKA anche nel 2012 per un breve periodo. In questa occasione avevo fatto amicizia con un bambino scalmanato, piedi scalzi e maglietta bucata, che a malapena parlava francese, di nome Fabrizio. Tornando a Kanyaka, ho rincontrato Fabrizio e parlandoci, in perfetto francese, ho scoperto che sta frequentando gli ultimi anni delle superiori e appena finito s’iscriverà all’università per studiare informatica. È stata una scoperta stupenda: le scuole che gestiamo qui possono davvero fornire ai bambini strumenti efficaci per uscire dall’orizzonte dei campi coltivati in cui verrebbero condannati”.
E: “In queste prime settimane abbiamo accompagnato l’equipe locale di AMKA negli incontri di monitoraggio e distribuzione dei pasti ai bambini seguiti dal programma di lotta alla malnutrizione. Siamo stati in cinque villaggi, andando ad incontrare mamme e bambini casa per casa. Si parla in Swahili perché nei villaggi le famiglie conoscono giusto qualche parola di francese, ma non serve conoscere la lingua per percepire la cura, l’attenzione, l’energia e la dedizione che le colleghe congolesi mettono in ogni incontro. Il primo giorno, da brava figlia di un mondo del lavoro fondato sull’efficienza, ho pensato che potessero esserci modi per ottimizzare tempi e attività, ma mi è bastato qualche incontro in più per rendermi conto che sta proprio nel lavoro di sensibilizzazione 1 a 1 e nel discutere insieme seduti su quattro sedie sgangherate l’impatto di quello che facciamo”.