E’ tra le poche giornaliste italiane ad aver attraversato in posizioni di vertice tutti i mezzi di comunicazione: tv, web, cinema, carta stampata. Per approfondire il ruolo sociale dell’ informazione in pandemia Interris.it ha intervistato Maddalena Oliva, vicedirettore del Fatto Quotidiano. Ha raccontato nel documentario Robinù le bande di adolescenti che a Napoli si combattono a colpi di kalashnikov nelle guerre di camorra.
Comunicare la pandemia
Tra i riconoscimenti ricevuti nella sua carriera da Maddalena Oliva c’è il premio della Commissione europea per l’informazione sulla lotta alle discriminazioni e sul valore delle diversità. “Fake news e teorie cospirazioniste per molti sono lo ‘zucchero del web’: più ne leggono più ne vorrebbero leggere- spiega a Interris.it- Ecco perché tutti noi dovremmo anche cercare di resistere all’ossessione di sapere l’ultimo dato, l’ultima notizia. La sua carriera unisce giornalismo televisivo e carta stampata. In tempo di pandemia, quali differenze di comunicazione trova tra i due ambiti?
“Alla tv resta la forza dell’immagine. Se non fosse stato per i primissimi reportage video dalle terapie intensive di Codogno e Lodi, nella prima ondata, avremmo continuato a pensare che dopotutto il virus non interessava noi, ma solo la lontana località di Wuhan”.A cosa si riferisce?
“Sono servite le immagini dei malati intubati, dei caschi Cpap, della pronazione dei pazienti, degli occhi cerchiati e disperanti dei medici e degli infermieri per comprendere quanto la bomba ci fosse scoppiata in casa. Su questo, sull’immediatezza e sulla potenza che le immagini possono veicolare, la Tv, col suo portato, resta imbattibile”.
Perché?
“Gli italiani in generale negli eventi più importanti della vita pubblica del Paese, come le elezioni, le grandi crisi politiche e/o sociali, gli attacchi terroristici e ora le pandemie, continuano a preferire – se si guardano le rilevazioni e i numeri – i canali tv come mezzo per tenersi informati. E questo amplifica la potenza del mezzo”.E i giornali?
“Ai giornali resta il grande compito, nonché la responsabilità, di riuscire, attraverso l’approfondimento e le inchieste, a rimettere ordine al caos della pandemia. Si pensi per esempio al grandissimo lavoro che un giornale locale come l’Eco di Bergamo ha fatto durante la prima ondata, un lavoro di investigazione sui dati dei morti di quella che risulterà la provincia più colpita al mondo”. Si dice sempre che la comunicazione abbia perso incidenza a favore dei social. L’emergenza Covid ha riportato al centro l’esigenza di un’informazione professionale?
“Assolutamente sì. Ha messo in luce non solo l’esigenza di un’informazione autorevole e professionale, ma anche la necessità – e da questo punto di vista, anche la nostra mancanza – di un un giornalismo scientifico. Scontiamo, su questo, anni e anni di ritardi rispetto ad altri media che all’estero si sono attrezzati meglio. Attraverso la formazione di giornalisti specializzati in questioni scientifiche, o grazie a figure di rilievo nell’abito delle scienze che hanno anche grandissime capacità di divulgazione come columnist nei principali quotidiani”.Può farci un esempio?
“Penso per esempio a uno scrittore come David Quammen). Ecco così spiegata- solo in parte, certo- la proliferazione nel nostro dibattito pubblico dei virologi in tv: i media in Italia si sono attrezzati così per fronteggiare la fase, in mancanza di una formazione specifica nel leggere e padroneggiare certi temi scientifici. Alla fine, nel medio-lungo periodo, chi sta andando bene, in termini di copie vendute o di share, è chi è riuscito a mettere in campo un’informazione quanto più autorevole e affidabile”.Per superare i danni sociali delle fake news è sufficiente una comunicazione verificata e attendibile?
“Temo non basti. Soprattutto in questa fase. Tutti noi siamo sempre più esposti alle fake-news: sotto pandemia ancor di più se è possibile, proprio perché ci manca quella “cassetta degli attrezzi” con cui leggere la realtà e difenderci anche da possibili fake news. La dimensione di isolamento, poi, già di per sé non aiuta il confronto, lo scambio, e nella “bolla” l’autoriferimento di certe comunità social può fare ancora più danni”.
In che modo è cambiato in pandemia il modo di operare dei mass media?
“C’è prima di tutto una considerazione di tipo tecnico, da funzionamento della macchina del’informazione. La pandemia ha messo in grandissima difficoltà i meccanismi di ‘raccolta’ stessa e di accesso alle notizie: questo sia per gli inviati della tv che per la carta stampata. E questo sta mettendo a dura prova il mestiere del giornalista anche perché non si tratta di un evento che si consuma in un tempo ridotto, accidentale. Diventando sistemico, o meglio endemico, il virus provocherà nel lungo periodo diverse rivoluzioni nella macchina dell’informazione”. C’è sufficiente responsabilizzazione negli operatori della comunicazione?
“In linea generale, mi sento di rispondere che abbiamo vissuto momenti in cui il nostro sistema mediatico ha dato prove peggiori di sé. Anche perché in questa fase, salvo rarissimi casi, chi ‘la spara grossa’ viene subito stigmatizzato dal proprio lettorato e pubblico. Certo, resta un grosso rischio che a mio parere si inizia a vedere sempre più chiaramente”.Quale?
“La tendenza- anche tra i più importanti attori dell’informazione- a rincorrere, in modo frenetico e compulsivo, spesso solo per fare più click, tutte le presunte ultime anticipazioni delle bozze dei vari dpcm, le emergenze da una parte all’altra d’Italia, la corsa al vaccino, i colori delle regioni eccetera, arrivando a dire una cosa un giorno, per essere smentiti, e smentirsi, il giorno successivo”.E cosa comporta?
Questo non fa che aumentare la confusione, in un momento in cui l’opinione pubblica richiede invece informazioni certe. Un’altra tendenza, che corre parallela a questa appena descritta, e che può risultare anche più infida, è quella che qualche giorno fa alcuni membri del Cts hanno definito ‘terrorismo della comunicazione'”.Cioè?
“Usare quelle poche informazioni frammentate che i media possiedono, per descrivere scenari apocalittici, anche quando non se ne ha contezza o possibilità di verifica. Tanto più che la scienza è, per natura stessa, predittiva. E soprattutto considerato che di Sars-CoV-2 persino gli scienziati ancora sanno poco”.