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L’orrore in Libia. Sulla pelle i segni dei pestaggi e dei maltrattamenti

Al porto di Civitavecchia sono sbarcate e 156 persone soccorse dalla life support di Emergency. Le testimonianze delle atrocità subite dai migranti

Il muro dell’indifferenza copre l’orrore. Sulla pelle i segni dei pestaggi e dei maltrattamenti. Al porto di Civitavecchia sono sbarcate domenica le 156 persone soccorse dalla nave “Life Support” della ong Emergency. Tra i naufraghi due donne e 28 minori non accompagnati. Molti di loro denunciano violenze in Libia. Emanuele Nannini è il capo della missione Sar. “Entrambe le imbarcazioni avevano evidenti problemi alla navigazione. La vita di queste persone ara a rischio se non le avessimo trovate in tempo”. Sono state necessarie due diverse operazioni di salvataggio. Le 156 persone soccorse provengono da Bangladesh, Pakistan, Sudan, Eritrea, Egitto. Gambia, Chad, Camerun, Senegal Mali, Nigeria, Costa d’Avorio e Guinea Konakri. Tra di loro ci sono due donne (di cui una madre di tre bambini tra i 7 e i 10 anni) e 28 minori non accompagnati. Molti naufraghi raccontano di essere stati reclusi arbitrariamente in Libia dove hanno subìto violenze.orrore

Voci dall’orrore

“Oggi è il primo giorno della mia vita – commenta Iusef, uno degli uomini soccorsi, che sul corpo riposta i segni delle violenze subito in Libia –. Non volevo passare la mia vita a fare il soldato. E fare la guerra. Per cui ho lasciato il mio Paese dopo aver terminato le scuole superiori. Mio fratello minore ha deciso di partire con me. Ma purtroppo in Libia siamo stati divisi. E adesso non ho idea di dove sia. É dura sentirmi ora al sicuro sapendo che lui in questo esatto momento è probabilmente ancora in qualche carcere libico. Ho 26 anni. Però ho deciso di non contare i tre anni passati in Libia. Come se la mia vita li si fosse interrotta e fosse ripresa solo oggi”.orrore

Sacrifici delle famiglie

“Per due anni ho viaggiato solo. Sapendo che non c’era nessuno ad aiutarmi. E che ero l’unico che si sarebbe preso cura di me. Molte volte ho pensato ai miei genitori, rimasti in Nigeria – racconta Keda, uno dei 28 minori non accompagnati a bordo della Life Support –. Adesso mi sento addosso un’enorme responsabilità. La mia famiglia ha fatto pesanti sacrifici per farmi arrivare fin qui. E io ora farò altrettanto per loro”. Le operazioni di salvataggio della Life Support si sono svolte in due momenti diversi. La prima ha riguardato una piccola imbarcazione di legno in difficoltà in acque internazionali. Individuata poco dopo le ore 12 della notte del 16 febbraio. Avvisate le autorità competenti, il team di Emergency ha iniziato le operazioni di salvataggio. Il trasferimento a bordo ha riguardato 46 naufraghi. Tutti uomini provenienti da Bangladesh, Pakistan, Sudan, Eritrea ed Egitto. Dopo aver concluso le operazioni di salvataggio e aver informato le autorità, la Life Support ha chiesto un “porto sicuro” (o place of safety, “pos”). Dove sbarcare i naufraghi. Mentre attendeva una risposta, ha ricominciato le attività di ricerca di una imbarcazione in condizioni precarie. A segnalarla erano state proprio le persone soccorse durante la notte.orrore

Life Support

Verso le ore 8.30 del mattino, un’ora dopo aver ricevuto il porto sicuro (pos) di Civitavecchia, la Life Support ha individuato un’altra imbarcazione in difficoltà. Si trattava di un gommone grigio di una decina di metri. La nave della ong Emergency ha iniziato le operazioni di salvataggio. In coordinamento con il Centro di Coordinamento per il Salvataggio in Mare. I naufraghi erano 110. Le operazioni si sono concluse alle ore 11.30. Al momento non c’erano tracce della barca segnalata dai naufraghi del primo soccorso. “Durante le due operazioni di salvataggio eravamo l’unica Ong in acque internazionali della zona Sar. Abbiamo avuto abbastanza difficoltà perché entrambe le imbarcazioni avevano evidenti problemi alla navigazione. La vita di queste persone era veramente a rischio, se non le avessimo trovate in tempo”, puntualizza Emanuele Nannini.

Orrore
Migranti detenuti in Libia

In fuga dall’inferno libico

Prosegue il capo missione Sar di Emergency: “Per noi il senso di questa missione è soprattutto salvare la vita di persone che scappano da guerra, torture e situazioni di sofferenza. Ma soprattutto dall’inferno libico. La società civile sta cercando di colmare un vuoto che è stato creato dall’indifferenza e dalla miopia delle istituzioni. Che da un lato non garantiscono canali sicuri per venire in Europa. E dall’altro stanno facendo di tutto per fare in modo che la frontiera più letale dell’immigrazione venga completamente lasciata scoperta. Il nostro mandato è continuare a salvare vite in mare. Le loro condizioni di salute sono buone. Il nostro team sanitario ha eseguito le verifiche delle condizioni di salute di tutte le persone a bordo. E ha prestato le cure sanitarie a chi ne aveva bisogno”. Poi le testimonianze dell’orrore nei racconti del naufraghi soccorsi.

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