Trovare un punto di incontro tra scienza e coscienza potrebbe sembrare quasi una sfida retorica. E forse lo sarebbe, se non fosse quella principale del nostro secolo. Riuscire a incanalare lo sviluppo tecnologico, nella salda consapevolezza che, rispetto al passato, la sua portata va bene al di là della mera applicazione tecnica. Mai come oggi, infatti, il progresso può (o rischia di?) incidere nella quotidianità di chi ne sperimenta gli effetti, trasformando rapidamente in normalità delle prassi che, di norma, andrebbero arginate tra conoscenza e formazione all’uso. L’intelligenza artificiale, in questo senso, è solo uno, anche se il principale, degli applicativi bisognosi di un inquadramento (che l’Unione europea, ad esempio, ha già tentato). Se non altro perché perfettamente in grado di agire anche in uno degli ambiti primari della società umana: quello dell’informazione. E, chiaramente, per estensione anche del giornalismo.
Informazione e menti meccaniche
Non è un mistero che, di recente, le aziende leader del settore abbiano sviluppato tecnologie in grado di elaborare, sulla base di semplici input, quelli che a tutti gli effetti potrebbero essere considerati dei fac-simile di articoli giornalistici. Un prodotto basato unicamente su indicazioni fornite da mente umana per fornire contenuti realizzati secondo una logica meccanica. Un prodotto che, a un’occhiata attenta, apparirebbe immediatamente frutto di menti tecnologiche. Il problema è che, in questa particolare fase della transizione digitale, a essere cambiato radicalmente non è solo il profilo di chi informa ma anche di chi legge. O, quantomeno, cambia (e piuttosto rapidamente) la percezione dei contenuti e, soprattutto, la loro assimilazione. Un tema che, nell’ambito della Giornata dedicata alla libertà di stampa, assume una connotazione che oscilla tra l’interesse e la preoccupazione.
Governare il cambiamento
Il punto è che, in un momento storico in cui il ruolo di chi informa fa i conti con il mare magnum di piattaforme web in grado di veicolare contenuti spesso privi sia di una base fatta di fonti verificate che di norme deontologiche tenute in debito conto, anche l’approccio alla lettura ha assunto la velocità del mondo 4.0. “Per anni – ha spiegato a Interris.it Carlo Verna, Consigliere ed ex presidente dell’Ordine dei Giornalisti – abbiamo lavorato sugli sviluppi della tecnologia applicata al giornalismo. Facemmo, ad esempio, uno studio con l’Università Federico II per definire il percorso delle notizie, al fine di individuare quando l’algoritmo è il caporedattore”. Una ricerca finalizzata a “difendere il primato dell’uomo rispetto alla tecnologia” che, “se non governata, finisce per creare situazioni non accettabili per il sistema informazione. Per questo la nostra attenzione è puntata sul governo dell’uomo sulle possibilità che la tecnologia offre“. Una fase che richiede posizioni di forza sul rispetto delle norme base dell’informazione ma anche apertura al nuovo che avanza: “Se ci mettiamo in trincea non risolviamo nulla: il cambiamento c’è e lo devi governare, guidare perché le opportunità prevalgano rispetto ai rischi”.
La mutazione genetica dell’informazione
È significativo, in questo senso, notare come “la tecnologia, per sua natura, sia neutra rispetto ai processi. Il punto è come la gestisci, capire se ‘conta più l’ingegnere o il giornalista’. Il primo deve esclusivamente creare sistemi a misura del secondo, al quale spetta il compito di elaborare la notizia”. L’intelligenza artificiale altro non è, quindi, che una variabile del percorso: “Abbiamo assistito – ha spiegato Verna – a una sorta di mutazione genetica già con i social. Per certi versi, a riguardo i figli ne sanno più dei padri. Nelle scuole di giornalismo questi aspetti vengono trattati, con una bella convergenza tra comunicazione e informazione. Tuttavia, quando il giovane giornalista accede in un contesto redazionale, possiede competenze digitali che spesso non hanno i suoi superiori”. Si verifica quindi “uno scarto generazionale nella conoscenza tecnologica. Perché, in fondo, non può prevalere esperienza digitale dei più giovani rispetto a quella sul campo degli anziani. Questa è la vera sfida: combinare l’innovazione del giovane con l’esperienza più anziani”.
Esperienza e innovazione
È chiaro che, su un piano prettamente concettuale, un’intelligenza artificiale possa preconfezionare dei contenuti senza l’evidenza del tocco di coscienza. E, naturalmente, di quello creativo proprio di chi padroneggia il campo dell’informazione nei suoi aspetti principali. Al quale non spetta solo la responsabilità deontologica ma anche il mantenimento della propria libertà d’espressione: “Prima ci si basava su capacità archivistica del giornalista. Ora questo processo è superato dalle tecnologie che ti consentono di recuperare dati e addirittura ri-elabolarli. Ma deve essere gestito tutto dall’esperienza del giornalista, dalla capacità umana. Durante la mia presidenza all’Ordine, ho proposto al Ministero dell’Istruzione un’educazione all’informazione come elemento della didattica. Io credo che giovani debbano insegnarci il funzionamento dei ritrovati tecnologici ma, a loro volta, devono capire capacità di muoversi all’interno del mondo di un’informazione che corre velocissima”.
Medici delle fake-news
Assistere al cambiamento non è quindi sufficiente. Per tutelare il ruolo dell’informazione e la possibilità di essere analisti dei tempi, occorre essere partecipi nel processo di bilanciamento che questa fase richiede: “Un tempo i giornalisti erano di fatto gli unici detentori della possibilità di parlare a tanti. Adesso c’è una sorta di orizzontalità: tutti possono parlare da uno a tanti, immettere contenuti nei circuiti. Tuttavia, chi ha un tesserino e si riconosce in regole deontologiche, diventa certificatore della notizia. Siamo una sorta di medici della fake news: guariamo la comunità dal virus delle notizie false. La colonna portante deontologia è il rispetto della persona e dell’informazione”. Niente che possa essere attribuibile a menti meccaniche.