“L’uguaglianza è una grande fesseria”. Raggiunto al telefono, il chitarrista Paolo Falessi smonta, senza troppi giri di parole, una visione paternalistica del “diversamente abile”. Un limite – ammette – per lo più culturale: “Ancora ci sono famiglie che considerano i figli diversamente abili come una disgrazia” mi dice. Ma Paolo non è tipo da fare le prediche. Preferisce il linguaggio universale per eccellenza: la musica. Trent’anni fa con un gruppo di amici fonda la band Ladri di Carrozzelle. Da allora, sono cambiate tante cose, ma quel “carrozzone” fantasmagorico e divertente non si è mai fermato.
Paolo, come è nata la band Ladri di Carrozzelle?
“È nata il 15 novembre 1989. Trent’anni di attività ininterrotta di idee che non si sono mai fermate. Tutto è iniziato da un incontro in un villaggio turistico: eravamo tutti di Roma, al ritorno andavamo in giro a mangiare o a vedere concerti. È questa la vera novità: rendere normale lo straordinario! Da allora siamo un gruppo: sono cambiate tante cose, ma siamo rimasti con quello spirito”.
Qual è la vostra caratteristica?
“Noi abbiamo tre parole: leggerezza, ottimismo e buonumore. Credo che siamo in assoluto la band più divertente e impegnata. Con la musica diciamo tanto e vedere l’impegno di tutti i ragazzi è un messaggio straordinario. È il nostro modo di proporre un’immagine diversa della disabilità”.
Come descriveresti il tuo percorso nella band?
“Personalmente, lo trovo un percorso molto semplice. Sono stato conquistato dai ragazzi del primo gruppo. Molti di loro mi hanno insegnato tante cose dal punto di vista umano. Il problema è che i pregiudizi restano e, talvolta, ritornano più violenti di prima. Negli ultimi anni sono stati fatti passi indietro, secondo me. Basti vedere l’uso che si fa di termini come ‘infelice’ o ‘meno fortunato'”.
Credi sia un atteggiamento figlio di questo tempo?
“La situazione economica generale ha ‘incattivito’ la gente, rendendola più egoista. C’è addirittura che chiede di riportare i disabili negli istituti! Ma noto a malincuore che c’è anche un egoismo di ritorno nelle famiglie con disabilità perché, quando il sussidio assistenziale è minato, ciascuno bada agli affari propri”.
Qual è il vostro messaggio?
“A noi non piace fare prediche, ci piace far musica. Siamo gente che sale su un palco perché è capace di suonare e questo è il più bel messaggio che si possa dare. In fondo, siamo dei privilegiati, perché abbiamo la musica. Andiamo nelle scuole, facciamo spettacoli che parlano di ambiente, di pace, di giovani. Non abbiamo bisogno di comunicare la disabilità. Se la nostra è disabilità, è fuori dagli stereotipi”.
Qual è la vostra “arma” migliore per superare il pregiudizio?
“Beh, l’ironia. La gente ti rispetta se sai prenderti in giro. Il nostro primo singolo s’intitolava ‘Distrofichetto’. Nella band c’erano ragazzi con distrofia muscolare e ci abbiamo ironizzato su questo. Eppure è difficile sradicare un atteggiamento paternalistico. Quando si dice ‘Siamo tutti uguali’ è una fesseria. Al massimo, ‘Siamo tutti uguali nei diritti e doveri’, per il resto siamo tutti diversi. Se lo accettassimo, avremmo meno paura fra noi”.
Qual è uno fra i ricordi più forti di questi 30 anni?
“Il ricordo più forte risale al 1995, quando abbiamo suonato per la prima volta al ‘Concertone’ del Primo Maggio. Eravamo giovani, siamo saliti su quel palco e l’emozione era forte. Ricordo che, dopo la nostra esibizione, siamo scesi ed è calato un silenzio di 15 minuti…non ce la facevamo a parlare per l’emozione. Uno più recente risale alla scorsa estate, quando abbiamo fatto cinque serate di concerto a Kampala, in Uganda. Naturalmente, fra i ricordi più forti ci sono quelli legati ai ragazzi della band che non ci sono più, che sono dei pezzi di cuore, ed è bello che c’è un momento in cui li ricordiamo. Sono anni di passione, ma anche di sofferenza e fatica. In fondo, è giusto così: credo che renda tutto molto più interessante”.