Povertà e disabilità sono due concetti complessi ed entrambi possono portare a forme di esclusione sociale: la definizione di povertà include il disagio economico ma anche quello abitativo, lavorativo e la mancanza di istruzione, relazioni e opportunità. La disabilità è un fenomeno complesso perché riguarda non solo la persona in sé ma anche la sua interazione con l’ambiente sociale. In letteratura viene riconosciuto che le persone con disabilità presentano un maggiore rischio di povertà o esclusione sociale. Questi fattori hanno spinto CBM Italia, una realtà che, da oltre 110 anni, opera per spezzare quel circolo vizioso in cui povertà e disabilità si alimentano a vicenda nei Paesi del Sud del mondo, a elaborare la ricerca dal titolo “Disabilità e povertà nelle famiglie italiane”, con l’intento di approfondire il nesso tra le due condizioni nel nostro paese. Interris.it, in merito a questa esperienza, ha intervistato il dott. Massimo Maggio, direttore di CBM Italia.
L’intervista
Dott. Maggio, in Italia, secondo gli ultimi dati Istat, ci sono 3 milioni di persone con disabilità e 5,6 milioni di persone in povertà assoluta. In base ai dati della vostra ricerca, che correlazione c’è tra disabilità e povertà?
“Nel mondo, secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, circa il 16% delle persone ha una disabilità. Di questi, 142 milioni hanno una disabilità grave e l’80% vive nei paesi del sud del mondo. Noi operiamo in questi luoghi dal 1908 ed abbiamo scoperto il nesso forte che sussiste tra disabilità e povertà e viceversa. Ciò ci ha spinto ad indagare su quello che succede in Italia, in quanto non esisteva uno studio sistematico su questi temi per permettere di capire se, anche nel nostro paese, esisteva un nesso tra disabilità e povertà. È bene ricordare che, quest’ultima non sussiste solamente dal punto di vista economico, ma ha un carattere multidimensionale e, ad esempio, comprende il disagio abitativo, educativo, lavorativo, la mancanza di istruzione, di relazione e di opportunità, andando al di la degli aspetti prettamente economici. Pertanto, insieme alla Fondazione Zancan, uno dei più autorevoli centri studi di carattere sociale in Italia, abbiamo deciso di metterci in ascolto delle persone con disabilità e delle loro famiglie che vivono un disagio economico. La ricerca che ne è scaturita ha un approccio sia qualitativo che quantitativo, ed è stata realizzata attraverso questionari e interviste one to one. Da questo lavoro sono emerse quattro grandi evidenze che hanno sottolineato la correlazione esistente tra povertà e disabilità”.
Quali sono state le maggiori evidenze emerse in merito?
“Sono emersi quattro aspetti in particolare. Primo: la necessità di abbattere i muri che isolano perché, le famiglie e le persone con disabilità coinvolte, percepiscono e vivono una condizione di isolamento sociale. Basti pensare che, oltre il 70% di questi, non hanno una rete amicale di supporto e, nel 55% dei casi, non partecipano alle attività delle associazioni di supporto alla disabilità. Inoltre, c’è un incremento di questi dati nei casi in cui il livello educativo è più basso. Quest’ultimo presuppone una capacità più scarsa di venire a conoscenza delle opportunità e dei diritti che ci sono. Se, a tutto ciò, si unisce lo stigma che ancora aleggia attorno alle persone con disabilità tutto si aggrava ulteriormente. È quindi necessario rafforzare, come stiamo già facendo in qualità di CBM Italia, la cultura dell’inclusione e della convivenza in cui, il ruolo delle persone con disabilità, diventa sempre più importante. Secondo: è necessario investire in servizi ‘promotori di umanità’. Le famiglie che abbiamo intervistato faticano ad arrivare a fine mese, a sostenere delle spese impreviste o pagare delle spese mediche. Però, nove richieste su dieci, non hanno carattere economico ma umanizzato, ovvero hanno la necessità di avere dei servizi che consentano di mettere al centro la persona con forme di sostegno specifiche e concrete, in grado di superare la standardizzazione delle risposte e, di conseguenza, possano attuare una presa in carico globale. Terzo: riconoscere e valorizzare le capacità di ogni persona con disabilità, al fine di essere utili a sé stessi ma anche agli altri. Il loro protagonismo all’interno della società va sostenuto perché, le persone con disabilità, sono in grado di fare del bene agli altri. Quarto: l’inserimento lavorativo. Le persone con disabilità chiedono di lavorare in senso più ampio, ovvero di poter conciliare i tempi di lavoro e i tempi di cura. Qui si apre il grande tema del Progetto di Vita. Il lavoro crea dignità, futuro e, di conseguenza, un Progetto di Vita a cui, le persone con disabilità, hanno diritto”.
In che modo, secondo voi, i cosiddetti “servizi umanizzati” devono entrare nel Progetto di Vita delle persone con disabilità per creare opportunità di inclusione?
“Dobbiamo essere in grado di vedere la disabilità non solamente all’interno di valutazioni di tipo clinico, in cui la si considera solo sotto l’aspetto medico. La persona e tutte le sue esigenze devono essere messe al centro attraverso l’umanizzazione. I bisogni, come quelli di ognuno di noi, sono multidimensionali e non sono legati solamente alla cura, ma anche alla socialità, alle opportunità ricreative e di studio. L’inclusione è omnicomprensiva”.