Generazione Z: perché soffrono di ansia i ragazzi nati tra il 1995 e il 2010

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Non è una novità che i ritmi della società odierna siano motivo ulteriore di stress, stanchezza e ansia. Ma a quanto pare, per le generazioni nate tra la fine del ‘900 e l’inizio del nuovo millennio, le cose sono leggermente più complicate…
Non sarebbero infatti solo i ritmi ad essere un problema, ma una serie di cause che renderebbe la vita delle nuove generazioni – ormai note come le generazioni Z – la vita più ansiosa di sempre.

I ragazzi della Generazione Z

Un’azienda di sicurezza informatica a livello globale, la Kaspersky Lab e la società di ricerche Censuswide hanno condotto uno studio nel febbraio 2018 che ha coinvolto 1.003 intervistati della Generazione Z (ragazza tra i 13 e i 23 anni) del Regno Unito. I risultati, riportati dall’istituto A.T. Beck, hanno dimostrato che tra i nati dal 1995 al 2010 c’è un’epidemia di ansia: l’87% dei giovani dichiara di sentirsi ansioso e la maggior parte di loro non cerca nessun tipo di aiuto.

Interris.it ne ha parlato con la dottoressa Pamela Pace, psicologa e psicoterapeuta.

“L’ansia non è la paura: sono due emozioni diverse. La paura si riferisce ad uno stato di allerta rispetto ad un pericolo specifico, oggettivo, viceversa l’ansia riguarda situazioni soprattutto ignote, non ben specificate, cioè pericoli generici. Paura e ansia rimandano inoltre ad una diversa contrazione temporale: la prima è più schiacciata sull’istante, mentre la seconda riguarda maggiormente l’incertezza, l’attesa, cioè una sospensione temporale”.

Stress e panico, quale differenza?

“Oggi si tende molto a utilizzare il termine “stress”, “panico”, per riferirsi in generale a tutti quegli stati d’animo caratterizzati dall’ansia e da fenomeni fisici e funzionali (stanchezza, depressione, tachicardia, affanno…). E’ bene però poter specificare che lo stress psicologico definisce piuttosto l’effetto su una persona di un periodo di tempo durante il quale ha risentito di un’eccessiva pressione ambientale, eccedente rispetto alle sue risorse, alle sue capacità di adattarsi e rispondere. Ad esempio: un individuo può attivarsi eccessivamente nella spinta a dover soddisfare le pretese dell’ambiente lavorativo, per non correre il rischio di essere licenziato; o nel rispondere alle continue e pressanti esigenze del suo ambiente circostante, per non deludere. Infatti il termine “stress” è preso in prestito dal campo della metallurgia e rimanda proprio alla pressione che viene effettuata su un metallo per testarne la resistenza. Ecco perché, un ambito professionale particolarmente esigente e competitivo, può agire, alla lunga, come un fattore stressante”.

Le varie tipologie di stress

“A tal riguardo è utile sottolineare che esistono vari tipi di stress, dai meno gravosi, come gestire un neonato, a quelli più seri legati a lutti, malattie, licenziamenti. Va detto che, nell’epoca contemporanea, siamo un po’ tutti sottoposti a stress, data la vita frenetica e oggi anche la presenza dei contagi e le tante incertezze e precarietà che la pandemia ha comportato. I fattori stressanti, se perdurano nel tempo, possono dar luogo a fenomeni psicosomatici, o problemi fisici veri e propri: è dunque utile ascoltare anche il corpo e, là dove è possibile, cercare di riprendere ritmi, abitudini a noi familiari”.

Prima e dopo il lock down

“Dopo il lock down l’osservazione clinica ha potuto effettivamente evidenziare l’intensificarsi generale di alcuni vissuti umani: da quelli più maniacali, cioè che esprimono un atteggiamento al di là di limiti e convenienze, a forme diverse di pessimismo, nichilismo, cadute del tono emotivo e spinte regressive. Come reagire dipende dalle risorse di ognuno e, in particolare, dalla qualità del suo atteggiamento rispetto alla vita, nei confronti degli imprevisti, del modo peculiare di fare i conti con la contingenza”.

Bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto?

“Come già evidenziato la paura è un vissuto soggettivo: ad esempio alcune persone hanno paura dei cani, altri no. Ciò detto non penso si possa generalizzare e universalizzare un “pensiero felice”, anche perché quest’ultimo non può prescindere dalla storia di ognuno, dal senso che ogni soggetto dà all’essere felice, ma anche rispetto alla disponibilità e propensione alla speranza, al pensiero positivo. Non tutti vediamo il bicchiere mezzo pieno! Ma possiamo sforzarci per vederlo”.

 

Rossella Avella: