“Il Natale richiama il senso di condivisione. E il primo calore è dare affetto soprattutto quando ai bambini e agli anziani senza più famiglia”, spiega a In Terris Giovanni Paolo Ramonda, responsabile generale della Comunità Papa Giovanni XXIII. Nel 1987 venne aperta a Rimini la prima “Capanna di Betlemme”. Una realtà di pronta accoglienza serale e notturna per senza dimora. Qui gli “invisibili” non trovano solo un tetto sulla testa e un letto dove dormire. Ma soprattutto il calore di una famiglia, attraverso momenti importanti di condivisione come la cena e il dialogo. Occasioni che lentamente permettono di instaurare relazioni significative.
Il senso solidale del Natale
Fedele al mandato di Don Oreste Benzi “quando i poveri non vengono a cercarci, dobbiamo andare noi a cercarli”, la Comunità ha iniziato ad incontrare i poveri nelle stazioni, sotto i ponti, sulle panchine nei parchi, nelle case abbandonate e ovunque essi si rifugiassero alla ricerca di un posto sicuro per la notte.
“Si tratta di un’iniziativa ispirata da don Benzi e che abbiamo sviluppato ispirandoci al Vangelo e al mistero dell’incarnazione che il Natale esprime. Il nostro impegno è dare una casa a chi non ce l’ha e dare da mangiare a chi ha fame. Coloro che hanno bisogno attendono risposte concrete, non enunciazioni di principio. Le Capanne di Betlemme sono una risposta ad una emergenza tanto più stringente in inverno, con il freddo che diventa una minaccia mortale per migliaia di clochard”.
Chi sono i “nuovi poveri” di cui parlano i dossier statistici?
“Sono innanzi tutto le persone che hanno perso il lavoro. La pandemia ha moltiplicato il disagio e c’è stata un’esplosione di richieste di aiuto. La principale urgenza è costituita oggi dalla mancanza di lavoro. Abbiamo in funzione una rete di cooperative sociale che operano sul mercato offrendo occupazione ai soggetti svantaggiati che possono lavorare e hanno assoluta necessità di sostentarsi”.
Cosa accade a coloro che perdono il lavoro?
“Precipitano in una situazione di difficoltà estrema, perdendo persino la possibilità di mantenere i loro figli. Cerchiamo di curare queste condizioni di fragilità con una visione globale ma anche dando lavoro attraverso le cooperative sociali. Una risposta attuale, che sa stare sul mercato. Con esse aiutiamo chi è rimasto senza una occupazione”.
Come operano le cooperativa sociali?
“Abbiamo iniziato nel 1988 gestendo le attività in favore dei tossicodipendenti promosse a partire dall’inizio degli anni Ottanta dal servizio dipendenze patologiche. Gli obiettivi sono al promozione umana e l’integrazione delle persone secondo i principi della solidarietà, della mutualità, della democraticità, dell’impegno responsabile. Ci impegniamo a promuovere la centralità della persona e favorire lo sviluppo delle capacità specifiche di ciascuno attraverso attività e servizi di accoglienza, cura, tutela, riabilitazione e reinserimento sociale per soggetti svantaggiati (con particolare riferimento a persone in stato di dipendenza patologica tramite le comunità terapeutiche) nonché mediante attività di prevenzione primaria, servizi di assistenza domiciliare e quant’altro utile allo scopo sociale. Per il recupero dei tossicodipendenti gestiamo attualmente in Italia 22 comunità terapeutiche. E per far fronte alle numerose richieste di inserimento di persone adulte con diverse problematiche, abbiamo aperto case di accoglienza, anche di emergenza”.
L’emergenza fredda fa emergere drammaticamente il dramma sociale dei clochard. Perché se ne parla così poco?
“Prima di conoscere a fondo il problema si potrebbe pensare che i “barboni” siano dei fannulloni, sporchi, parassiti senza speranza, pazzi, ubriaconi, tossicodipendenti che hanno scelto volontariamente la propria condizione. Non è così: la maggior parte vorrebbe avere un’abitazione e un lavoro stabile, vivere normalmente, relazionarsi con gli altri. Generalmente hanno avuto una vita traumatica: chi ha rotto col coniuge, con i genitori, con i figli. Altri si ritrovano senza casa né niente, dopo anni di reclusione in carcere, o in ospedali psichiatrici. Altri, i cosiddetti nuovi poveri, hanno perso il lavoro o sono stati sfrattati. La Capanna di Betlemme organizza generalmente una o due uscite giornaliere in strada per incontrare i senzatetto. Una prima di cena per proporre un pasto e un’altra alla sera tardi per offrire un posto letto”.
In che modo intervenite?
“Oggi chi in Italia e all’estero arriva alla Capanna di Betlemme ha anche la possibilità di uscire dalla propria condizione attraverso la costruzione di progetti individualizzati di reinserimento sociale. Questo percorso si sviluppa nella misura in cui la persona ritrova il desiderio di condurre una vita dignitosa, la capacità di lottare contro le ingiustizie e il sostegno fraterno di persone che si fanno a lei ‘prossimo’”.
“Gli scartati oggi sono quelli che non si sentono di nessuno e che vivono ai margini. Oggi c’è una corsa a fare i propri interessi, a cavarsela per sé. Ciascuno pensa al proprio nucleo, al proprio clan. Ci sono tante persone che non hanno più nessuno. Il caso più evidente è quello degli anziani che non hanno più una famiglia. Durante la pandemia la loro tragedia si è tradotta in un’elevatissima mortalità. Le Rsa rispondono a un bisogno ma è sempre più urgente supportare le famiglie per far sì che possano tenere con sé i propri anziani. Dare una risposta alle famiglie per consentire l’assistenza domiciliare è una questione primaria di interesse pubblico”.