Myanmar: la guerra minaccia l’istruzione

scuola - opam

A sinistra, foto gentilmente concessa da Opam. A destra Fabrizio Consorti

Quella in Myanmar è una guerra spaventosa di cui poco si sente parlare. Eppure secondo il centro di ricerca Acled (Armed Conflict Location & Event Data Project), organizzazione statunitense non governativa non a scopo di lucro specializzata nella raccolta di dati, analisi e mappature dei conflitti nel mondo, sono oltre 30mila le vittime dell’odio civile che continua a straziare il cuore dell’Asia. Siamo nella vecchia Birmania, un Paese dove i diritti umani sono totalmente calpestati da anni di dittatura e nell’ultimo biennio da una guerra civile che non guarda in faccia nessuno.

L’attacco aereo del 5 febbraio scorso

Un’offensiva dell’esercito birmano ha colpito con attacchi aerei e colpi di mortaio una scuola sul monte di Loi Nan Pha, nella parte orientale della ex Birmania, oggi Myanmar, che confina a Nord con lo Stato Shan e ad Est con la Thailandia. Il bilancio è pesante e parla dell’edificio scolastico distrutto quasi totalmente, di quattro bambini uccisi e di oltre dieci studenti che hanno riportate ferite molto gravi.

L’intervista

Per comprendere meglio la situazione Interris.it ha intervistato Fabrizio Consorti, vicepresidente dell’Operazione promozione alfabetizzazione mondo (OPAM), associazione che da 50 anni fa della promozione del diritto all’istruzione lo strumento privilegiato per sconfiggere la povertà, promuovere la dignità di ogni uomo, favorire l’autosviluppo dei popoli e uno sviluppo sostenibile per tutti.

Fabrizio, come è avvenuto questo attacco?

“Il tutto è accaduto durante le ore di lezione, per cui i ragazzi presenti erano molti. Nel complesso scolastico ci sono alcuni rifugi antiaerei per proteggersi da questo tipo di bombardamenti, ma questa volta l’attacco è arrivato all’improvviso e i bambini non hanno avuto il tempo di mettersi al riparo. I dati dicono che dall’inizio del colpo di stato fino al 1° gennaio 2024, gli attacchi aerei della giunta ai danni dello Stato Kayah hanno distrutto quarantasei edifici religiosi, ventidue scuole, quattordici ospedali e migliaia di case”.

Perché colpire una scuola?

“Lo scopo di questi attacchi è disgregare un tessuto sociale che la giunta militare ritiene offra protezione alla resistenza. In particolare, distruggere una scuola è un’azione sia materiale che simbolica perché significa negare la possibilità di educare intere generazioni, che cresceranno senza gli strumenti culturali per intervenire sulla propria realtà. In questo modo vuol dire ridurle silenziose e condannarle ad una misera economia di faticosa sussistenza”.

Ad oggi molte scuole si trovano all’interno dei campi profughi. Qui l’istruzione viene garantita?

“Portare avanti l’attività scolastica in questo contesto significa fare i conti con innumerevoli difficoltà. Innanzitutto la scarsa preparazione degli insegnanti e il grande numero di bambini e ragazzi presenti nei campi. A questa problematica poi si somma la mancanza di fondi per dare un minimo compenso agli insegnanti, la carenza di materiale didattico, le continue interruzioni dei tempi di studio, la difficoltà di muoversi a causa del trasporto limitato e dei posti di blocco lungo le strade, e il rischio di essere accusati di favoreggiamento dei ribelli”.

L’OPAM per sostenere l’alfabetizzazione in questo contesto molto difficile ha attivato una specifica raccolta fondi “Aiutiamo gli invisibili”. In che modo è organizzata l’attività scolastica nei campi profughi?

“Innanzitutto ci tengo a chiarire che OPAM da sempre nei progetti che sostiene non invia proprio personale in loco, ma guida le comunità locali attraverso referenti che per lo più sono persone del territorio competenti e di fiducia dell’associazione. Così avviene anche in Myanmar, dove il nostro sostegno va in particolare ad un gruppo di religiose che, grazie alle indicazioni della diocesi di Loikaw organizzano per ogni campo profughi un comitato per l’istruzione scolastica e coordinano le attività di alfabetizzazione. I corsi sono organizzati in base al livello di formazione dei ragazzi, quindi in ogni gruppo possono esserci età diverse perché tanti sono quelli che non hanno frequentato la scuola con regolarità. Inoltre, in ogni campo c’è un referente che collabora con le suore quando non sono presenti e che, insieme ad altri volontari, segue i ragazzi nello studio e quando bisogna fuggire dal campo. Se il campo non viene distrutto o occupato, poi i ragazzi e gli altri rifugiati ritornano, e la lotta per la sopravvivenza ricomincia”.

Elena Padovan: