La testimonianza di un sacerdote melchita di Beirut: dialogo e non più divisioni

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Interessi settari, divisioni confessionali, corruzione e un’economia in crisi che sta allargando la fascia della popolazione in povertà. L’esplosione del 4 agosto scorso nel porto di Beirut, che ha causato oltre 200 vittime e migliaia di feriti, ha messo nuovamente in risalto tutto i problemi che attanagliano il Libano.

Una cartina tornasole

Forse, proprio per tutti i motivi appena elencati, il Paese resta la migliore cartina di tornasole di tutto il complesso mosaico del Medio Oriente, con tutte le sue ricchezze e fragilità, sia economiche sia culturali. Non a caso, l’organizzazione politica del Paese dei centri continua a fondarsi sulla rappresentanza delle tre principali comunità etnico-religiose: gli sciiti, i sunniti e i cristiani maroniti. In questa cornice succede infatti che le tre principali cariche istituzionali del Libano – presidente della Repubblica, premier e presidente del Parlamento – devono essere distribuite in base alla confessione. Un difficile equilibrio che ha favorito anche l’immobilismo e una rigidità nel ricambio della classe politica. A tutto questo si aggiungono le milizie delle diverse confessioni, tra cui la potente Hezbollah, e le pressioni delle potenze regionali sciite e sunnite che cercano di attirare il Libano nella loro sfera di influenza.

Una terra di incontro e dialogo tra le religioni

Tenendo conto di tutti questi elementi si comprende perché il Cardinale Béchara Boutros Raï, Patriarca di Antiochia dei Maroniti, il 17 agosto ha lanciato il “Memorandum del Libano e della neutralità attiva”, un documento che si rivolge anche alle Nazioni Unite e alla ai Paesi del mondo arabo. La neutralità – scrive il cardinale – è la garanzia dell’unità del Paese e della sua collocazione storica, è la sua forza e la garanzia della sua stabilità. Un Libano neutrale – si legge ancora – può contribuire alla stabilità della regione, difendere i diritti dei popoli arabi e la pace, e ad instaurare relazioni giuste e sicure tra i Paesi del Medio Oriente e l’Europa, grazie al suo posto sulla riva del Mediterraneo.

Nel memorandum il cardinale spiega il concetto di neutralità attiva, evidenziando alcuni aspetti di cui il Paese gode con questo status, come la rinuncia ad entrare in coalizioni o conflitti a livello regionale e internazionale; la promozione dei diritti in tutto il Medio Oriente e la capacità di garantire sia la sua sicurezza interna che esterna. “Il pluralismo religioso, culturale e civile, come caratteristica specifica del Libano – scrive ancora il patriarca- ne fa necessariamente una terra di incontro e di dialogo tra le religioni, le civiltà e le culture” nonché un “ponte di comunicazione culturale, economica e civile tra Oriente e Occidente”.

I vantaggi per il Paese

Questo status ha dato grandi vantaggi al Paese dei cedri ma l’equilibrio, l’unità interna, la stabilità e l’indipendenza del Libano sembrano essere sempre più in bilico. Una condizione di precarietà che emerge anche dalla testimonianza di padre Sasseen Gregoire II, sacerdote melchita cattolico, raggiunto telefonicamente da Interris a Beirut.

La testimonianza da Beirut

Grazie a Dio non sono rimasto ferito e ho subito danni materiali alla mia abitazione, ma siamo tutti colpiti nella nostra dignità, siamo danneggiati nel cuore” racconta il sacerdote melkita che abita a soli 800 metri dal porto e che è stato risparmiato dall’onda d’urto solo perché la sua casa è circondata da altri palazzi.

“Tutti i cristiani del Medio Oriente guardano al Libano come se fosse il Vaticano, è un punto di riferimento perché qui i cristiani hanno sempre avuto pieni diritti e un ruolo di rilievo nella società” spiega padre Gregoire, secondo il quale il sistema costituzionale del Paese è ormai indebolito: “Siamo l’unico Paese al mondo in cui un capo di stato straniero in visita deve parlare con tre presidenti, quello della repubblica, quello del consiglio e quello del parlamento. Un Paese che poggia su tre teste è difficile da mandare avanti”.

Una complicata gestione del potere

Il religioso Melkita cerca di chiarire la complicata gestione del potere: “La nuova costituzione approvata nei primi anni Novanta ha dato il via libera alla corruzione e le milizie hanno preso sempre più potere, gli equilibri sono stati rotti definitivamente nel 2005 quando è stato ucciso il presidente Hariri”. “Poi ci sono gli interessi delle potenze regionali e mondiali – aggiunge – Stati Uniti, Francia, Siria, Iran, Arabia Saudita, Israele”.

Ad ogni modo, padre Gregoire evidenzia il fatto che il Libano resta fondamentale per la sopravvivenza del cristiani in tutto il Medio Oriente e chiede che l’Occidente si impegni per fermare l’esodo di nostri fratelli nella fede dalla Siria e dall’Iraq. Il religioso aiuta crescere i figli del compianto fratello ed è preoccupato per il loro futuro: “Cosa può offrire questo Paese ai giovani, cosa possiamo dare a questi miei nipoti? Ci sono troppe divisioni e la convivenza è sempre più difficile, il Libano è diviso per aree di influenza e tra una provincia e l’altra ci sono i check point delle milizie”. “Noi amiamo questa terra – aggiunge – ma ad oggi la maggioranza dei cristiani vuole emigrare per avere un futuro migliore”.

Il problema principale del Libano

Per il religioso libanese il problema principale resta la mancanza di ricambio della classe dirigente: “Qui non cambiano nemmeno i nomi. Nabih Berri, Walid Joumblat; Samir Jeajea, i politici sono sempre gli stessi”. Gregoire racconta poi un episodio che ha destato molto allarme nella comunità cristiana: “Dopo l’esplosione hanno provato a comprare le case dei cristiani, speculando sul prezzo. Allora il patriarca maronita ha detto a tutti di non vendere”. La speranza è che dalle macerie possa ripartire un libano capace di rinnovarsi.

Marco Guerra: