Maria Rita Parsi: “La guerra è la fine del ‘diritto alla pace’ dei bambini”

Dopo otto anni e circa ventimila morti, con l’intervento russo il conflitto in Ucraina conosce un nuovo tragico capitolo. Come in ogni scontro armato, le principali vittime sono i civili, donne e uomini, anziani e giovani, e tra di loro i fragili, i più vulnerabili, cioè i bambini. Secondo Save the Children, l’organizzazione umanitaria che da oltre un secolo soccorre i minori di tutto il mondo quando questi si vedono privare dei diritti e della tutela della loro stessa vita, in Ucraina sono almeno 7,5 milioni i giovani e i giovanissimi a rischio di subire gravi danni fisici, psicologici e di dover abbandonare la loro casa, se non addirittura la loro città e il loro Paese. Nell’est dell’Ucraina sono 400mila i minori che vivono nelle aree più ad alto rischio e un quarto di loro, circa 100mila, è già sfollato da parenti, amici o conoscenti. “I bambini dell’Ucraina sono intrappolati nel fuoco incrociato di questa guerra voluta dagli adulti. Non si sarebbe mai dovuto arrivare a questo”, ha dichiarato la direttrice di Save the Children per l’Europa orientale Irina Saghoyan, “il rischio per la loro salute mentale e il potenziale trauma a lungo termine non possono essere sottovalutati”.

A tutela dei più piccoli

E proprio di quello che significa per la psiche e lo sviluppo di un minore vivere in un contesto di guerra, Interris.it ha parlato con Maria Rita Parsi, psicoterapeuta e psicopedagogista, docente universitaria, scrittrice e dal 2012 membro del  Comitato Onu per i diritti del fanciullo, un organismo internazionale con sede a Ginevra che ha il compito di verificare che tutti gli Stati aderenti alla Convenzione delle Nazioni unite sui Diritti del fanciullo ne rispettino gli obblighi. Documento che, agli articoli 38 e 39, afferma che, in caso di conflitto armato, gli Stati parti si impegnino a far rispettare le regole del diritto umanitario internazionale che protegge anche i bambini, che i questi debbano godere di cure e protezione se coinvolti in guerre, infine gli Stati devono adottare ogni provvedimento per agevolare il recupero fisico e psicologico e il reinserimento sociale dei minori vittime, tra le altre cose, di un conflitto armato. “La guerra dovrebbe diventare un tabù”, dice a Interris.it la professoressa Parsi, richiamando quanto scritto quasi vent’anni fa, nel 2003, in un libro uscito con il quotidiano l’Unità, all’epoca diretto da Furio Colombo, Il soldato con la pistola ad acqua. Era una raccolta di testimonianze di ragazzi italiani sulla guerra, arricchito da un racconto di Gianni Rodari, da un testo dello scrittore siciliano Andrea Camilleri e dai contributi, oltre a quello della professoressa, di diverse esponenti del centrosinistra italiano e dall’allora presidente dell’associazione Arciragazzi Daniela Calzone. “Nel momento della guerra ‘salta’ tutto, e i minori non hanno altra possibilità che di ritenere quelle autorità genitoriali ed educative in balìa degli eventi come lo sono loro. Si trovano in una condizione di impotenza assoluta e di disorientamento – spiega Parsi – e siccome i minori sono più esposti, i belligeranti dovrebbero almeno tenere in considerazione il loro diritto ad essere tutelati”.

L’intervista

Cosa significa per un minore trovarsi in guerra, tra i bombardamenti e la paura?
“Trovarsi in mezzo a una guerra arreca a un bambino gravissimo danno esistenziale. Gli adulti sono in fuga e i piccoli non trovano più riferimenti né contenimenti. In un contesto del genere vanno in frantumi le loro certezze, che in una situazione dove sono garantiti loro protezione, diritti e tutela, gli consentono di evolversi e di crescere. La guerra è veramente la fine del ‘diritto alla pace’, perché per un minore la pace è un diritto, sia nel microcosmo familiare – dove i conflitti tra genitori o parenti possono causare diversi tipi di disturbi – che nel contesto sociale, messo a rischio da fenomeni di bullismo, criminalità o degrado nel territorio.  Quando un bambino non ha più riferimenti avverte un’immensa solitudine che lo porta a pensare di poter contare soltanto sulle proprie forze, e al tempo stesso vive un senso di impotenza che alimenta l’onnipotenza dell’immaginario. Una cosa che i bambini fanno, per esempio, davanti a una situazione folle come una guerra, è pregare”.

Che impatto ha sul corpo e sulla mente di un bambino restare per giorni senza cibo né cure mediche?

“Il cibo è primo legame con la vita che un bambino stabilisce, per cui se non si riesce a mangiare si va alla ricerca spasmodica di qualche alimento per poter sopravvivere. Un bambino piccolo si trova a dipendere dagli altri, ovviamente, mentre se è un po’ più grande può arrivare anche ad andarlo a cercare in mezzo alla spazzatura. Anche essere privati delle cure, soprattutto se si è stati feriti, può lasciare un segno profondo, perché si uniscono il dolore fisico e il dolore psicologico. Togliere cibo e cure  mediche a un bambino vuol dire gettarlo nella confusione e nella disperazione più totale, da cui ne possono uscire soggetti depressi o aggressivi”.

In una situazione di guerra, come può un bimbo vivere la perdita di un genitore, un fratello o una sorella?

“A prescindere dal fatto che accada durante un conflitto, la perdita di un parente stretto o di una persona cara può determinare un incremento del senso di morte oppure un forte senso di rabbia, da cui scaturiscono atteggiamenti come il desiderio di vendetta”.

Sappiamo che in ogni conflitto ci sono tanti piccoli sfollati che si ritrovano senza più un tetto, senza una casa. Cosa significa questo per loro?

“Per un bambino la casa è il luogo della stabilità, un luogo di riferimento come la scuola e quelli dove svolge le proprie attività ricreative. Perdere casa significa quindi perdere tutto e, tra la disperazione e il disorientamento, dover ricostruire delle consuetudini che diano una stabilità”.

Lorenzo Cipolla: