ll Sudan è uno Stato arabo-africano, che confina con l’Egitto a nord, con il mar Rosso a nord-est, con l’Eritrea e l’Etiopia a est, con il Sudan del Sud a sud, con la Repubblica Centrafricana a sud-ovest, con il Ciad a ovest e con la Libia a nord-ovest. La sua capitale è Khartum, il centro politico, culturale e commerciale della nazione e, dal 1° gennaio 1956, è indipendente dal Regno Unito.
Il conflitto in atto
Nell’aprile del 2019 il paese è assurto a modello di riscossa popolare quando, nell’aprile del 2019, grazie ai movimenti della società civile, è stato in grado di rovesciare il dittatore Omar al-Bashīr. Ma, a partire dal golpe dell’ottobre 2021, il paese è precipitato in una spirale di instabilità progressiva sfociata sette mesi fa in violenza efferata che, nell’aprile 2023, è ulteriormente degenerata dando vita ad una guerra civile di immani proporzioni che ha causato quasi 10mila vittime, esodi della popolazione che hanno spostato più di 4,6 milioni di persone internamente e quasi 1,3 milioni esternamente. Interris.it, in merito all’attuale situazione nel paese, ha intervistato il dott. Luca Mainoldi, africanista dell’Agenzia Fides.
L’intervista
Dottor Mainoldi, qual è l’attuale situazione in Sudan alla luce degli scontri armati tra le forze di reazione rapida e l’esercito sudanese?
“L’area di scontro maggiore tra le due forze è la capitale Khartum. Interi quartieri sono nelle mani delle RSF, alcune dell’esercito ed altre sono contese. La popolazione civile è presa tra due fuochi e, nella giornata di domenica, ci sono stati almeno venti morti per il bombardamento di un mercato nella città tra scambi di accuse reciproche. Le RSF inoltre hanno preso il controllo di diverse aree nel Darfur, area di cui sono originarie, posta ad occidente al confine con il Ciad. Sembra che il governo, espressione dell’esercito, vorrebbe spostare le attività civili a Port – Sudan, posta ad est sul Mar Rosso. Qualcuno inizia ad avanzare l’ipotesi che, il Sudan, possa spaccarsi com’è successo in Libia tra la Cirenaica e la Tripolitania, tra un governo controllato dai militari ed altre aree controllate dalle RSF. Nel frattempo ci sono dei negoziati in corso in Arabia Saudita, sponsorizzati dai sauditi e dagli americani e, di conseguenza, non si sa bene se, questi combattimenti, siano finalizzati ad arrivare a dei negoziati in una posizione di forza”.
Il Sudan è un paese produttore di petrolio. Come può influire questo fattore sugli scontri armati in atto?
“Il petrolio può fornire le risorse ai combattenti per armarsi ma non è un fattore decisivo. Buona parte del petrolio del Sudan attualmente, dopo che nel 2011 c’è stata la divisione con il Sud Sudan, viene estratto in quest’ultimo. Invece può essere decisivo il controllo degli oleodotti che lo convogliano a Port-Sudan dove, tramite delle petroliere, può accedere ai porti internazionali. Al momento però, non è il fattore principale. I militari controllano la maggior parte dell’industria del paese, tra cui la produzione di armi. Le RSF invece, in passato, offrendosi come mercenari al di fuori del paese, come ad esempio in Yemen, hanno tratto risorse dal controllo delle miniere d’oro ed hanno degli sponsor esterni che stanno soffiando sul fuoco”.
Dallo scorso aprile, migliaia di persone hanno perso la vita nel corso di questo conflitto. In che modo, secondo lei, si sta connotando l’intervento delle istituzioni e delle potenze internazionali per promuovere la pace?
“Al momento c’è un intervento congiunto di sauditi e americani per portare sullo stesso tavolo i due contendenti. Questi sforzi negoziali però, devono essere accompagnati anche da specifiche offerte a entrambi. In passato, erano alleati nel reprimere le speranze della società sudanese per un governo democratico e poi hanno iniziato a combattere tra di loro per spartirsi il potere. La grande assente in tutto questo è stata la società civile che è stata totalmente silenziata. Il conflitto rischia di risvegliare le velleità secessioniste ed etniche di alcuni gruppi armati sudanesi che potrebbero e, in parte lo stanno già facendo, schierarsi da una parte e dall’altra e diventare una vera e propria guerra civile. La comunità internazionale deve intervenire sui paesi che appoggiano l’uno o l’altro contendente”.