“Lockdown – Le voci della città”: viaggio nella pandemia, tra ferite e cicatrici risanate

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In qualche modo, i tre mesi o giù di lì di lockdown i lineamenti di un film li hanno avuti. Quasi surreale lo scenario, abituati come eravamo a vedere gli effetti di una pandemia sullo schermo, o a leggerne le conseguenze su un libro di storia. Un concetto quasi lontano dalla nostra stessa concezione della malattia, qualcosa forse più di impensato che di impensabile. Eppure il coronavirus la sua sfida l’ha posta, imprimendo una chiusura forzata alle nostre giornate e influendo in modo forse mai sperimentato prima sulle nostre relazioni umane. Se la lontananza abbia scavato solchi profondi o fornito il pretesto per meglio comprendere il valore dello stare insieme lo dirà solo il tempo. Ma l’analisi di Lockdown – Le voci della città, film documentario del giovane regista Giancarlo Cutrona, ideato assieme al direttore della fotografia Giampiero Gangi, rappresenta uno spaccato importante sui mutamenti che la nostra società ha subito durante l’astinenza forzata dallo stare insieme. Un viaggio nella città di Catania, in quel Sud per cui si è a lungo temuto e che invece, con coraggio, ha affrontato il proprio lockdown. Resistendo. Un’indagine a 360 gradi su ansie, paure, speranze vissute durante la “reclusione”. Con una domanda di fondo che è un po’ quella di tutti: “Resteremo a lungo a leccarci le ferite o parleremo presto di cicatrici risanate?”.

Giampiero Gangi, direttore della fotografia, e Giancarlo Cutrona, regista

Il periodo del lockdown ha segnato profondamente la nostra quotidianità. Incontrando i cittadini nel periodo della quarantena avete riscontrato un comune sentore di inquietudine oppure le persone hanno risposto in modo diverso alla chiusura forzata delle attività di ogni giorno?
“La paura e l’incertezza sono scaturite a seguito di un dibattito mediatico che – come abbiamo visto – ha presto preso una deriva dai toni apocalittici. L’inflazione di notizie e la sovraesposizione mediatica non aiuta il cittadino a capire, ad acquisire conoscenza, informazioni ma lo terrorizza. Poi ci sono le paure di carattere materiale, concerni al lavoro, alle relazioni sociali, alla salute. Non pochi, infatti, temono un ritorno del virus e quindi del lockdown”.

La privazione non tanto della libertà, quanto delle nostre azioni quotidiane ha imposto probabilmente una riflessione più approfondita sul valore dei piccoli gesti comuni. A vostro avviso, il periodo dell’emergenza sanitaria può aver rappresentato una lezione di vita oltre che una tragica parentesi per il nostro Paese?
“No. Come già detto in altre occasioni la pandemia non ha fatto altro che esacerbare i problemi già presenti nella nostra società. Le lezioni potrebbero essere molteplici: una su tutte, la certezza che il sistema-mondo non è invincibile, e che la rincorsa alla ‘perfezione’ dei circuiti per mezzo della tecnica, serve a ben poco: la natura ha un organismo, un apparato digerente, un sistema immunitario. Possiamo andare nello Spazio, scambiarci informazioni alla velocità della luce, fabbricare invenzioni dal carattere zelante, ma basta una molecola per rimettere tutto in discussione”.

Catania, come città del Sud, ha vissuto forse in modo meno violento l’impatto del Covid in Italia. Qual era la percezione dell’emergenza vissuta da parte dei cittadini, costretti al lockdown con il timore lontano di quanto stava accadendo nel Nord Italia?
Mentre il Nord ha avuto il suo momento di crisi maggiore durante la pandemia, il Sud – e in questo caso specifico Catania, che viveva una nuova fase di rinascita anche grazie al turismo – oggi rischia di ripiombare in una crisi peggiore di quella del 2008″.

Per quanto avete potuto riscontrare nell’ambito del vostro lavoro, cosa lascia davvero il coronavirus? Cambierà il modo di relazione anche sul piano umano oltre che su quello “fisico”? Sarà necessario imparare a convivere con una paura, magari anche inconscia?
“Sicuramente ha lasciato dei traumi di carattere psicologico, le cui sfaccettature sono ancora tutte da scoprire. Allo stesso tempo possiamo dire di essere tornati a una dimensione ‘terrena’ delle cose. Si è riaccesa la flemma della coscienza ed è tornato in auge un dibattito consapevole sul senso dell’esistenza; perciò in molti ora si pongono interrogativi sul modello di società vigente. In questi giorni pare che tutto stia tornando alla ‘normalità’, ma nell’intimità molti pensano che le probabilità che la società del futuro possa prendere una deriva autoritaria, dove le relazioni sociali non saranno più le stesse di prima e l’atomizzazione dell’individuo e la sorveglianza formeranno la nuova cornice del contemporaneo, sono molto alte”.

Cutrona, Gangi e parte del team di “Lockdown”. Il primo da sinistra, Enrico Anicito, fonico di presa diretta
Damiano Mattana: