Non ha fatto prigionieri il coronavirus, colpendo indiscriminatamente praticamente in ogni zona del Pianeta. Senza risparmiare chi, già prima della pandemia in atto, affrontava situazioni estreme. Il popolo siriano, in questo senso, ha vissuto e continua a vivere una delle emergenze umanitarie più gravi della nostra epoca, stretto nella morsa di un conflitto civile che, di anno in anno, ha visto accrescere le sue conseguenze più nefaste. L’emergenza sanitaria è solo una delle variabili impazzite che cospargono il quadro della Siria, costretta a fare i conti con il progredire del Covid-19 sul territorio in un contesto in cui, al momento, solo 59 ospedali restano pienamente operativi. Una situazione ulteriormente aggravata dall’esodo dei sanitari e dagli esigui reparti di terapia intensiva (circa 500). Quanto basta per alzare l’asticella del rischio per una popolazione già duramente provata dalla guerra in atto e dalla crisi dei bisogni primari. Interris.it ne ha parlato con Chiara Saccardi, responsabile geografico di Azione contro la Fame per il Medio Oriente.
Il Covid-19 rappresenta un’ulteriore variabile negativa per la situazione della Siria. Quanto è elevato il rischio che l’esodo dei sanitari vada a influire non solo sull’aumento dei casi di coronavirus ma, di riflesso, a una minor incidenza delle cure mediche per le conseguenze del conflitto in atto? A emergenza finita c’è la possibilità di trovarsi di fronte a un punto di non ritorno per la crisi siriana, anche dal punto di vista economico?
“Siamo consapevoli delle criticità che riguardano il settore sanitario. Per questa ragione, Azione contro la Fame s’è preparata al meglio per far fronte ai rischi connessi alla pandemia ed evitare, come diceva lei, un punto di non ritorno. L’organizzazione ha, innanzitutto, adeguato i programmi preesistenti ai nuovi standard sanitari e alle esigenze contingenti, per evitare la propagazione del virus. Allo stesso tempo, sta promuovendo le buone pratiche igieniche di base e l’approvvigionamento di materiale di protezione individuale e di kit d’igiene adattati agli standard Covid-19 all’interno dei centri sanitari e negli insediamenti. Anche l’economia vive un notevole disagio, che deriva sia dagli effetti legati al conflitto in corso sia dalle conseguenze della pandemia. Già a metà marzo, in Siria, sono stati segnalati aumenti significativi dei prezzi e alcune carenze in tema di beni di prima necessità. In particolare, su mascherine e disinfettanti, abbiamo rilevato incrementi fino al 5.000%. Anche i prezzi del carburante hanno subito un rialzo: il costo del gasolio e del gas nel mercato informale è superiore di oltre il 160% e del 248% rispetto a prima. L’indice di cambio è ulteriormente calato, con una svalutazione pari al 50% rispetto a un anno fa. A questa situazione, si aggiungono le restrizioni alla mobilità: il conseguente aumento dei prezzi dei prodotti alimentari, l’interruzione delle ‘rotte’ di approvvigionamento e il rapido aumento del tasso di disoccupazione accresceranno, inevitabilmente, la vulnerabilità della popolazione”.
Quali strategie Azione contro la Fame sta mettendo in atto per far fronte ai bisogni primari della popolazione, specie in zone del Paese più segnate dal conflitto?
“Azione contro la Fame, al momento, sta implementando attività legate alla fornitura di acqua a sud di Hassakeh e nelle zone rurali di Aleppo. Spera di poter fare presto lo stesso anche nel governatorato di Idlib. Ha, inoltre, distribuito 13.000 kit di igiene (10.000 a Damasco rurale e 3.000 nelle aree rurali di Aleppo) e fornito dispositivi di protezione individuale e attrezzature mediche a strutture di assistenza sanitaria di base, ambulanze e cliniche. L’organizzazione ha anche promosso campagne di sensibilizzazione sulla prevenzione al Covid-19 e, adesso, sta pianificando per il prossimo mese l’avvio delle attività di distribuzione di pacchi alimentari e di kit di igiene aggiuntivi. Le nostre priorità, in questa fase, sono il miglioramento delle capacità di effettuare test per il rilevamento tempestivo dell’eventuale contagio, la protezione degli operatori sanitari attraverso la formazione e la fornitura di DPI, la corretta gestione dei casi e, infine, la sensibilizzazione connessa ai rischi legati al contagio”.
La vicenda Covid, con l’esodo dei sanitari e la diminuzione delle possibilità di approvvigionamento nelle riserve idriche, rende evidente un deficit di intervento da parte della Comunità internazionale rispetto a una crisi umanitaria già grave prima dell’emergenza coronavirus?
“Nonostante gli sforzi compiuti dalla comunità internazionale per affrontare i grandi bisogni della popolazione siriana, 11 milioni sono, purtroppo, le persone che hanno ancora bisogno di aiuti umanitari. Sei milioni sono, inoltre, gli sfollati interni e cinque milioni e mezzo i rifugiati nei paesi limitrofi. La lunga crisi pone, di conseguenza, sfide notevoli nell’ambito della preparazione di una risposta adeguata. Occorre, del resto, sostenere il fragile sistema sanitario, privo di personale sufficiente in termini numerici, di risorse adeguate, infrastrutture e attrezzature mediche capaci di soddisfare le esigenze significative della popolazione vulnerabile. È, inoltre, necessario far fronte alle difficoltà di accesso all’interno di alcune aree, anche a causa delle ostilità in corso: gli operatori umanitari devono, d’altra parte, muoversi liberamente e in sicurezza per sostenere e attuare i programmi umanitari. Infine, Azione contro la Fame ritiene cruciale la possibilità di aumentare e decentralizzare la effettuazione di test allo scopo di consentire una diagnosi più tempestiva in una più ampia gamma di territori”.
L’incremento dell’emergenza sanitaria, oltre che idrica e alimentare, e posta la gravità del conflitto in atto, potrebbe avere come conseguenza l’aumento dei profughi dal Paese in direzione delle frontiere europee, esasperando ulteriormente la pressione in contesti come Lesbo e altre aree dell’Egeo?
“I bisogni umanitari legati all’acqua riguardano, oggi, 15,5 milioni di persone. L’accesso alle fonti idriche, insieme alla fornitura di materiali di base per l’igiene, al sostegno dei sistemi sanitari e all’attenuazione dello shock economico legato alle restrizioni, costituisce una priorità per evitare nuovi preoccupanti scenari e rendere, così, più difficile una situazione che appare già complessa. Basti pensare alla situazione che riguarda il nord-est e il nord-ovest del Paese: l’impossibilità di accedere all’acqua potabile, in queste zone, potrebbe rendere la popolazione ancora più esposta al contagio. Le continue interruzioni all’impianto idrico di Alok, il principale fornitore di acqua per mezzo milione di persone a Hassakeh, sono solo un altro esempio di come il conflitto siriano stia provando la popolazione e di come sia necessario un intervento coordinato capace di evitare un aggravamento della situazione”.