Rimpatri verso la Tunisia al via dal 10 agosto, con la sensazione che per limitare le partenze dalle sue coste andranno fatti ulteriori passi. Soprattutto su un piano interno. Ma, almeno per ora, le misure di contenimento alle partenze irregolari, secondo il governo, restano l’unico argine all’incremento delle rotte migratorie nel Mediterraneo occidentale. Un filo diretto fra le coste del Nord Africa e le sponde di Lampedusa, dove lo spirito d’accoglienza del nostro Paese si è scontrato con la difficoltà materiale dell’hotspot isolano di garantire un posto per tutti.
Specie per coloro che in Italia sono approdati in maniera irregolare, su imbarcazioni salpate in una nuova escalation di partenze che, oltre ad aumentare il pericolo di nuovi incidenti nel braccio di mare che separa il Nord Africa dalle prime coste italiane, quasi per inerzia rischia di sortire anche un altro effetto. Quello di far associare la parziale ripresa dei nuovi contagi da coronavirus alle conseguenze delle migrazioni.
Tunisia, i porti delle Kerkennah
Un nesso valido non più che per altri gruppi di persone che si spostano da un Paese all’altro. Resta però il fatto che, anche per calibrare l’efficacia delle misure di contenimento in atto, il governo italiano ha deciso di intensificare i rapporti con i dirimpettai tunisini al fine di vigilare sulle partenze, specie attorno all’arcipelago di Kerkennah. E’ da queste isole, lembi di terra emersa in un Mediterraneo cristallino, a sud-est della Tunisia e ad appena un centinaio di chilometri da Lampedusa, che sempre più spesso partono i barconi. E anche i “barchini”, arrivati sulle coste italiane in un numero addirittura superiore.
Giovani perlopiù, in fuga non da guerre ma da una crisi sociale i cui margini sono ancora indefiniti. Perché la Tunisia, tra frontiere chiuse e stop al lavoro informale (fondamentale, come in quasi tutti i Paesi africani) imposto dal lockdown, i lavoratori continua a lasciarli a casa. E la distanza fra le Kerkennah e Lampedusa è davvero esigua, percorribile in poche ore, anche con imbarcazioni di fortuna. E le barche le hanno tutti, in una serie di isolotti popolati quasi esclusivamente da pescatori, più vicini alle acque italiane che alla capitale Tunisi.
Terra di partenze
E non è sempre stata terra di migranti Kerkennah. La bellezza del suo mare rientrava a buon diritto fra le mete d’eccellenza del turismo in Tunisia, così come le pittoresche tradizioni delle comunità di pescatori locali. Un prestigio via via appannato dalla contesa sulle trivellazioni petrolifere, già portatrici di un paio di gravi incidenti tra il 2016 e il 2017, e il colpo definitivo imposto dalla crisi economica, aggravata ulteriormente dalle restrizioni imposte dal lockdown. Anche al settore turistico naturalmente, che da solo rappresenta il 20% degli introiti del Paese.
Le Kerkennah, da porto di approdo, diventano quindi terra di partenze. Lontano da Tunisi, dai tassi di disoccupazione schizzati al 35% solo fra i giovani, e da un rischio di recessione diventato ben più che una possibilità, con stime che parlano di una riduzione del Pil di oltre il 4%. Condizioni mai viste dai tempi dell’indipendenza, ottenuta nel 1956, le quali però non hanno portato a nuove considerazioni circa lo status di “Paese sicuro”.
Il caso Algeria
Del resto, l’instabilità sociale, economica e politica è quasi una costante per il Nord Africa. Anzi, come spiegato a Interris.it da Federico Borsari, research assistant Ispi per Medio Oriente e Nord Africa, “la situazione tunisina va per certi versi inserita in un processo democratico in divenire, molto giovane e immaturo, a rischio di essere influenzato in negativo. Ma funzionante seppure difettoso”.
Una condizione radicalmente diversa rispetto a quella della vicina Algeria, dove il passaggio di consegne fra l’ex presidente Abdelaziz Bouteflika e l’attuale Capo di Stato, Abdelmadjid Tebboune (con l’interregno di Abdelkader Bensalah fra aprile e dicembre 2019), è stato accompagnato da tensioni sociali che, tutt’oggi, non sembrano essere sopite. “In Algeria, il processo politico è in una fase di stallo e atrofizzazione dopo l’uscita di scena di Bouteflika. Nel 2019 ci sono state proteste ogni giorno in Algeria, interrotte dal Covid ma riprese già da maggio”.
Un cambiamento mancato
Il punto è che, al netto delle promesse e nonostante le elezioni, “in Algeria c’è un sistema politico che non è cambiato. Tebboune è considerato da moltissimi esponenti delle manifestazioni come una figura della cerchia di potere di Bouteflika. Anche per i ruoli istituzionali precedentemente ricoperti. Non è considerato una figura nuova né di cambiamento. Insieme al governo stanno cercando di risolvere il gap con delle riforme che appaiono però più di facciata. C’è, ad esempio, una riforma in ballo per la libertà d’espressione, per la sicurezza, per i giornalisti ma, allo stesso tempo, ci sono leader delle proteste in carcere con generici capi d’accusa, senza poter parlare con i propri legali. E altre situazioni di violazione dei diritti umani”.
Elementi utili a creare una condizione di stallo che, se crea tensione sul piano politico, rasenta anche qui la crisi economica: “Un effetto dovuto all’abbassamento dei prezzi sul mercato dell’energia, soprattutto gas e, in parte, petrolio. Che hanno messo a dura prova l’economia interna, poco diversificata, che si base per larga parte sui proventi di questa energia. L’Algeria è il principale esportatore di gas in Europa. I bassi prezzi di questo periodo non la stanno aiutando, anzi, hanno peggiorato la situazione”. Il vaticinio su come andranno le cose da qui ai prossimi mesi, diventa a questo punto più una constatazione: “Il cambiamento atteso non c’è stato e le proteste continueranno”.