Vittime civili e problemi operativi della “guerra con i droni”

Con l’analista di strategie militari Gianandrea Gaiani vediamo che cosa comporta l’uso dei droni nelle azioni militari e quali sono i problemi che lascia aperti

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I recenti fatti di cronaca relativi alla smobilitazione delle truppe USA dall’Afghanistan, non provi di fatti sanguinosi e rappresaglie, hanno portato nuovamente alla ribalta le azioni militari compiute attraverso l’uso di droni. Azioni mirate, precise, ma che purtroppo molte volte comportano anche vittime civili, come sembra sia accaduto in Afghanistan anche nelle scorse settimane con i raid di rappresaglia effettuati dagli Stati Uniti dopo l’attentato all’aeroporto.
A proposito della cosiddetta “guerra dei droni” abbiamo intervistato Gianandrea Gaiani, esperto di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra, nonché redattore della testata giornalistica Analisi Difesa.

Gianandrea Gaiani, immagine tratta da Linkedin

Direttore, che cosa si intende esattamente con “guerra dei droni”?

“La guerra con i droni è quel tipo di operazione militare che cerca di colpire obiettivi specifici, spesso esponenti di spicco di gruppi terroristici e milizie di insorti.
Non è legata strettamente all’intervento americano in Iraq o in Afghanistan, ma viene attuata fin dal 2002 in moltissimi paesi dove sono presenti gruppi jihadisti e ha visto colpire centinaia di obiettivi, in alcuni casi coinvolgendo nell’esplosione dei missili lanciati dai droni anche civili, i cosiddetti ‘danni collaterali’”.

L’utilizzo dei droni non dovrebbe consentire una maggiore precisione nell’individuare gli obiettivi militari, escludendo quelli civili?

“Terroristi e miliziani sono consapevoli del pericolo che corrono e cercano di mischiarsi alla popolazione proprio per ridurre il rischio poiché sanno che gli occidentali cercano di evitare il più possibile di colpire innocenti, cosa non sempre possibile. Questo è il limite maggiore di questo tipo di guerra. Sul piano operativo invece il limite è che i comandanti uccisi sono stati presto rimpiazzati da altri esponenti dei movimenti jihadisti, inclusi leader di al-Qaeda, Stato Islamico e talebani”.


Quali vantaggi comporta usare i droni per attacchi militari?

“Il drone comporta tanti vantaggi tecnici: uno su tutti, la precisione. Si riesce infatti ad avere una visione perfetta dell’obiettivo mentre il pilota controlla il velivolo e le armi imbarcate da lontano, anche restando negli Stari Uniti grazie al controllo satellitare.
Inoltre i droni non hanno piloti a bordo e quindi in casi di avaria o abbattimento non si rischia la vita di propri equipaggi ma ci si limita a bombardare il relitto per impedire che le tecnologie presenti a bordo cadano in mani nemiche.
Infine i droni hanno costi di gran lunga inferiori, anche di 9 decimi, rispetto a un velivolo da combattimento di ultima generazione.
Oggi i nuovi velivoli da combattimento di 6a generazione in fase di sviluppo negli USA e in Europa come quelli di 5a realizzati in Russia prevedono un drone come velivolo gregario grazie ai vantaggi offerti dall’intelligenza artificiale”.

Con mezzi tanto potenti, perché l’impressione è che quella dall’Afghanistan sia stata una mesta ritirata?

“Il problema è proprio questo: l’Occidente non è più in grado di affrontare le perdite che caratterizzano le guerre, specie quelle di lunga durata anche se a bassa intensità.
L’incapacità dei paesi occidentali di sostenere i conflitti e sopportare perdite tra i propri militari aumenta il ricorso alla tecnologia, che ha ridotto con successo il numero di vittime ma da sola non è risolutiva.
Si può uccidere con un drone il capo dei talebani, ma se vuoi cambiare il destino dell’Afghanistan occorre mantenervi per molti anni soldati sul terreno.
I killeraggi mirati possono essere utili per eliminare pericolosi leader nemici o per effettuare rappresaglie, ma questo non è sufficiente a vincere una guerra.
Una debolezza strutturale dell’Occidente che comporta sul piano politico la pretesa di impiegare tecnologie avanzate che non richiedano di schierare truppe in prima linea con il paradosso di un Occidente, che esprime oggi la più grande e sofisticata potenza militare che il mondo abbia mai visto, abbinata all’incapacità di sostenere un conflitto prolungato anche contro avversari tecnologicamente arretrati come i talebani.
Abbiamo celebrato come un grande successo il ponte aereo dall’Afghanistan, che in realtà era solo un aspetto della fuga di USA e NATO da Kabul”.

 

Oltre a questi limiti oggettivi e direi antropologici, che altre problematiche ravvede in una guerra fatta “senza uomini”?

“C’è un importante aspetto giuridico di cui si parla poco: gli Americani, con la campagna contro il terrorismo, compiono o hanno compiuto azioni con aerei, droni e truppe sul terreno in almeno una decina di paesi: Iran, Iraq, Pakistan, Somalia, Sahel, Afghanistan, Siria…
Tutti paesi dove sono presenti gruppi jihadisti ma i cui governi in molti casi non hanno autorizzato né i raid né la presenza militare statunitense. In Siria ad esempio la presenza americana si configura come una vera e propria occupazione militare, in aperta violazione di qualunque principio di sovranità nazionale e diritto internazionale”.