L’eredità di Walter Bonatti: una montagna da amare

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“Il Po era il mio mare, le sue boscaglie immense foreste, e le secche i miei sconfinati deserti”. Tutto comincia da qui, da uno scorcio come un altro della Pianura Padana attraversata dal grande fiume, sponda emiliana, a sognare lande esotiche sotto il rombo dei bimotore o nella scia dell’eco delle sirene. Walter Bonatti scorge le ondulate cime appenniniche e immagina “l’insormontabile”, forse senza ancora sapere che il confronto con l’infinito significa aver già superato le vette più impegnative della sfida con sé stessi. Lo farà tante volte Bonatti, figura di spicco dell’alpinismo mondiale ma, soprattutto, un uomo che riuscì nella straordinaria impresa di materializzare i sogni, andando su per scendere il più a fondo possibile nell’interiorità dell’uomo. Ecco perché la natura, le esplorazioni da mito, le ascensioni formidabili: è tutto lì, nel nudo confronto fra l’uomo e la roccia, con la consapevolezza del proprio coraggio ma anche dei propri limiti.

Walter Bonatti nel 1965

Di fronte al limite

Probabilmente nessuno lo sapeva più di Walter Bonatti. Uno che non si arrese sul pilastro granitico del Grand Capucin, né sulla parte a picco del Dru, quando il dislivello di roccia liscia sembrava insormontabile. Ma che seppe rinunciare all’attacco del ghiacciaio del Freney, spazzato dalla bufera, aprendo la via della salvezza ai compagni di cordata nella tragica marcia di ritorno dal Pilone centrale, sul Monte Bianco. Una vita al limite, ma nel rispetto del proprio limite. Sulla montagna come nei deserti, nelle foreste, sui vulcani selvaggi e in tutti gli altri luoghi inaccessibili visitati come reporter di Epoca, affrontati in una dimensione quasi introspettiva del viaggio, in cui l’esperienza personale potesse divenire un tutt’uno con il paesaggio e la sua cultura.

Un 24enne Bonatti (a sinistra) assieme a Erich Abram, sul K2

Sulla nuda roccia

Alla delusione, sul piano umano, per le vicende che seguirono la storica ascensione del K2, Bonatti rispose applicando all’alpinismo una filosofia che andava ben oltre il semplice risultato. Anzi, nella quale il risultato stesso non rappresentava altro che una variabile in gioco nel mosaico delle sensazioni vissute in parete. Come sul Dru appunto, dove la sosta forzata su una parete priva di appigli significò un confronto faccia a faccia con la possibilità di morire: “Quello che sta prevalendo oggi nell’alpinismo – ha spiegato a Interris.it Raffaele Marini, presidente della Commissione centrale tutela ambiente montano del Cai – è un rischio culturale grave: il limite è la consapevolezza delle proprie forze, della propria capacità. Di fronte alle difficoltà, come diceva sempre anche Bonatti, bisogna essere onesti con se stessi e saper rinunciare. Superare il limite oggi è una moda e questo fa perdere molto spesso la capacità di valutare i propri limiti. Per questo a volte succedono i cosiddetti ‘no limits’, come se il limite fosse un elemento di debolezza e non di maturità”.

Sviluppo sostenibile

L’insegnamento di Bonatti filtra dalle sue stesse imprese, compiute nell’assoluto rispetto dell’ambiente montano e nella consapevolezza del ruolo dell’alpinista sul dorso di una guglia di roccia. Un messaggio scritto nei suoi libri, impresso nelle fenditure scalate, in ogni segno lasciato dai suoi ramponi. Segni, non ferite. Un concetto di cui la montagna ha bisogno, oggi come negli anni d’oro del Re delle Alpi: “Lo sviluppo del turismo – ha spiegato Marini – è stato monotematico e concentrato in alcune zone ben definite. Motore primo di questa concentrazione, anche esponenziale, è il mondo dello sci. Questo ha creato una necessità di infrastrutture di vario tipo e, col progredire dei cambiamenti climatici, ci troviamo difronte al fatto che questi impianti non sono più utilizzabili e si continua a salire oltre il limite delle creste, dove non si può più andare. Impianti di risalita riutilizzati come elementi per portare in quota le persone anche d’estate, e questo crea problemi di impatto sugli ambienti fragili”. Una fragilità intrinseca quella montagna, insita “proprio nella sua costituzione di ambiente ai limiti delle condizioni normali. Adesso sta diventando, dal nostro punto di vista, una difficoltà di approccio mentale. Uno studio estero dice che le stazioni sciistiche devono essere a-turistiche. Bisogna rifletterci con molto equilibrio. Nel frattempo, le popolazioni montane vivono queste contraddizioni, come i posti di lavoro temporanei e molto effimeri durante la stagione sciistica. Chi resta a monitorare, e quindi a vivere la montagna, resta sempre più solo. Nonostante i fondi europei, si ha difficoltà a immettere i prodotti sul mercato. Eppure il loro valore, in quanto frutto di un lavoro non industriale, dovrebbe essere riconosciuto”.

Il monolito di granito rosso del Grand Capucin, una delle realizzazioni più famose dell’alpinista

Cambiamenti in atto

Mari, fiumi e, inevitabilmente, la montagna. Il logoramento progressivo dei cambiamenti climatici ha colpito, e continua a colpire, anche l’ambiente montano. Un impatto che, come spiegato da Marini, si identifica innanzitutto “nell’Arretramento dei ghiacciai e nelle piogge sempre più violente, concentrate in periodi brevi e meno diffusi nel tempo. Tutto questo incide sulla fragilità strutturale della montagna. L’aumento della temperatura porta cambiamenti: la pernice bianca, ad esempio, porta la propria nicchia ecologica sempre più in alto, lo stesso stambecco comincia a salire sempre di più, il cervo sale dal medio-fondo valle. Si crea quindi un’invasione involontaria di habitat propri di alcune specie. Questo disequilibrio si traduce in perdita di biodiversità. E questa non è vista come una perdita di valore, perché il conservarla, per alcuni, è un ostacolo allo sviluppo. Nelle popolazioni montane sta prevalendo purtroppo una visione di gestione autonoma ma le risorse da mandare in montagna per creare un patto solidaristico e vivere serenamente, in termini numerici provengono dalla città. Il nostro cruccio è perdere la coesione sociale e territoriale. Creiamo conflitti tra popolazioni che non hanno motivo di esistere. E’ vero che la montagna è stata sfruttata dalla pianura, ma dobbiamo mettere insieme i pilastri dello sviluppo sostenibile, soprattutto economia e coesione sociale”. Condizioni che passano dal messaggio di Walter Bonatti: rispetto del luogo e, nel far questo, anche di se stessi, senza dimenticare i valori di entrambi gli aspetti. Una filosofia senza la quale la verticale parete del Dru sarebbe rimasta inviolabile. Quella del pinnacolo delle Aguilles e anche quella del nostro cuore.

Damiano Mattana: