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La Lazio di Maestrelli: l’orchestra calcistica negli Anni di piombo

Il lampo di un miracolo sportivo nel buio delle tensioni degli anni Settanta, da parte di una squadra figlia del proprio tempo

Alcune storie sportive possono essere lette unicamente nei contesti in cui maturano. Laddove, in pratica, il sacrificio e l’applicazione alla disciplina portano i risultati sperati in un quadro ben definito, magari una manifestazione di rango come un Mondiale o un Olimpiade. Altre storie, però, nascono letteralmente dalla strada. Costruite all’improvviso, quasi senza la pretesa di andare a farla davvero la Storia, ritrovandosi poi a dover dare conto a un popolo sportivo di un’impresa eroica forgiata a strattoni, tirando calci su un campo fatto ancora del fuoco sacro della passione. Poca estetica forse, ma di sicuro una prossimità maggiore con i propri sostenitori, con la propria linfa vitale. La Lazio campione d’Italia del 1974 appartiene a questa categoria. Presa per mano in Serie B da Tommaso Maestrelli e portata alla vetta delle vette appena due anni dopo, a metà circa di un decennio che aveva già regalato l’eccezionale trionfo del Cagliari e che, di lì a poco, avrebbe consegnato alla storia del pallone il Torino di Pulici e il Milan della stella.

Maestrelli, l’artefice del miracolo

Un trionfo inatteso ma genuino. Con la guida economico-gestionale del patron Umberto Lenzini e quella tecnica di Maestrelli, la Lazio si scrollò in fretta di dosso il fascino e le stravaganze scaramantiche di Juan Carlos Lorenzo, salendo rapidamente gli scalini tra una B superata di slancio e una A che, già un anno prima del trionfo, avrebbe potuto essere conquistata. Un miracolo sportivo che Maestrelli rischiò di far diventare ordinaria storia di sport se non fosse stato per il colpo di coda della Juve nel finale della stagione 72-73. Merito di una capacità gestionale in grado di creare un gioco ante-litteram, moderno nella concezione del calcio ma, al contempo, affidato a interpreti di tempra umana figlia diretta dell’estrazione media.

“Era una grande squadra – ricorda il giornalista sportivo Massimo Ciccognani – ma anche un gruppo vivo. Un presidente come Lentini che si era circondato di persone che sapevano di calcio. E c’erano varie individualità: Pulici, il portiere, era il professore, sapeva mettere ordine anche nello spogliatoio. E poi c’erano Chinaglia, Frustalupi, D’Amico, quest’ultimo una poesia solo a vederlo giocare. Era un calcio che oggi sarebbe ancora proponibile con determinati interpreti”.

Eroi sfortunati

Negli anni della genuinità calcistica, ancora lontana dall’onda anomala del Totonero dei primi anni Ottanta (che avrebbe tirato nel vortice anche la Lazio), il calcio non rappresentava ancora il business che sarebbe diventato nel giro di poco tempo. E gli uomini in campo rispecchiavano la fisionomia dei loro tempi. E, forse, mai squadra fu figlia della propria epoca come la Lazio del 1974. Non solo nella caratura dei suoi uomini ma nella loro stessa interpretazione della storia. Con una grandezza intensa ma breve, defluita nella drammaticità per buona parte di loro: da Chinaglia a Frustalupi (morto in un incidente stradale), da Pulici a D’Amico (entrambi scomparsi prematuramente), capitan Wilson e alla figura emblematica di Ferruccio Mazzola, talento schiacciato dal peso del suo stesso nome.

Fino allo stesso Maestrelli (scomparso nel ’76) e Re Cecconi, erede di una stirpe contadina omaggiata da Vittorio Emanuele II, ucciso con un colpo di pistola in una gioielleria, nella fredda serata del 18 gennaio 1977. Un episodio che avrebbe colpito al cuore tifosi e società ma che, a posteriori, sarà interpretato come un emblema del clima sociale che attraversava l’Italia degli anni Settanta, dove con fin troppa facilità si passava la parola alle armi. “Non c’erano i mezzi di comunicazione di oggi – ricorda l’ex radiocronista Riccardo Cucchi – né la possibilità di telefonare a casa. Andare allo stadio significava uscire in strada con la consapevolezza di trovarsi in una città come Roma, dove qualsiasi cosa poteva accadere”.

L’essenza vera del calcio

Eppure, la sinfonia di Maestrelli fu uno squarcio di sole sportivo nel buio del terrorismo che dilaniava un Paese ancora scosso dall’eco della detonazione a Piazza Fontana. Anni in cui lo sport non era, forse, il mitigatore sociale che sarebbe diventato nell’82, quando un’Italia stremata e definitivamente abbattuta dalla strage di Bologna si ritrovò, unita, a festeggiare il trionfo Mondiale. Ma comunque sufficiente a regalare momenti di convivialità spontanea, almeno quelli privi di connotazioni violente.

“La Lazio del ’74 fu una delle cose più belle di quegli anni lì – ricorda ancora Ciccognani -. C’era perfino una canzoncina che era intonata per celebrarne gli eroi. E poi c’era il vecchio stadio Olimpico, senza coperture né seggiolini, brutto e scomodo ma passionale. Dopo cinquant’anni ci si ricorda ancora di quei giocatori e questo ti fa capire che tipo di calcio era. Più bello e spontaneo, con panino e friarelli portato allo stadio. Non c’era niente di finto, perché erano i tempi. Non c’erano i telefonini, ci si dava appuntamento e ci si ritrovava. C’era, ad esempio, molto senso di appartenenza al proprio quartiere. Inoltre, si andava allo stadio senza la paura che le tifoserie potessero scontrarsi”. E con la possibilità, per una vecchia cenerentola, di potersi consegnare alla storia nel suo aspetto migliore.

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