Scrive in redazione un giovane lavoratore dipendente di una ditta di ristorazione da asporto, assunto nel novembre 2018 con contratto a tempo determinato non rinnovato alla scadenza nonostante la prosecuzione dell’attività, che ha ricevuto dal suo datore di lavoro l’invito a non recarsi più al lavoro a far data dal giorno successivo. Motivo esternato a voce: scarso rendimento per aver risposto ad un messaggio al telefono mentre alcuni clienti erano in attesa di essere serviti. La circostanza sembra singolare ma, al di là del banale episodio occorso al lavoratore, induce ad alcune riflessioni sul rapporto di lavoro subordinato.
Facciamo chiarezza
Sgombriamo subito il campo da equivoci che possiamo portarci inutilmente dietro: è malcostume far attendere persone al banco per trattenersi ad incombenze private e certamente il lavoratore se ne deve astenere, senza addurre giustificazioni tranne che non siano di particolare gravità, concetto da interpretare rigorosamente anche in relazione alla possibilità di rinviare l’incombenza ad un momento di minore impegno lavorativo.
I consigli per il lavoratore
Il lavoratore che ci ha scritto dovrà rivolgersi ad un legale, anche mediante l’ausilio dei patronati, che da sempre costituiscono un veicolo di sostegno operativo concreto, per avere soddisfazione delle sue ragioni, prima di tutto alla stabilizzazione del rapporto di lavoro per effetto della continuità lavorativa oltre la scadenza temporale, poi alla dichiarazione di nullità del licenziamento intimato in assenza della indispensabile forma scritta oltre che per irregolarità della contestazione disciplinare.
Una sanzione che lascia basiti
Ma è la sanzione inflitta che lascia tristemente basiti poiché risolvere un rapporto di lavoro che dura da un anno e mezzo per un tale episodio appare non solo eccessivo, ma si pone al di là di ogni ragionevole giustificazione corrispettiva. Essa denota, infatti, ragionevolmente o la sussistenza di un’intenzione risolutiva maturata nel tempo e manifestata non appena è capitata l’occasione oppure la considerazione di un potere superiore rispetto al lavoratore: entrambe le ipotesi sono mostri che ci costringono ad un viaggio indietro di oltre cento anni, quando il lavoratore era soggiogato alle paturnie piuttosto che alle sfuriate del padrone: qualsiasi documentario o fotografia delle condizioni del lavoro, in Italia come all’estero ed oltreoceano, rende testimonianza di una condizione disumana cui l’intero secolo scorso ha saputo rimediare, restituendo, nelle norme di legge, nella considerazione collettiva e nei fatti, la dovuta dignità al lavoro ed a colui che lo espleta, a qualunque livello, tanto che usava dirsi, nella formazione giovanile degli odierni anziani, che la differenza non sta nel tipo di lavoro svolto ma piuttosto tra chi lavora e chi no, con ciò riconoscendo ad ogni lavoratore, dal più umile al più altolocato, eguale dignità e rispetto, per la sua condizione di lavoratore. Sembrano concetti ovvi ma vengono disattesi molto più di quanto si pensi.
La precarietà
Ma c’è un altro aspetto che lascia perplessi, ed è la condizione di precarietà in cui il lavoratore oggi è posto a qualunque livello; addirittura la pubblica amministrazione (cui le generazioni passate ambivano per il posto fisso) stipula contratti a tempo e di natura provvisoria. Il posto fisso è stato criticato e dileggiato anche dalle recente cinematografia, suscitando ilarità e ironia, ma dobbiamo riconoscere che è stato il supporto su cui la società, sconfitta dalla guerra mondiale tra vincitori e vinti, ha potuto fondare la ricostruzione e lo sviluppo, consentendo alle famiglie ed ai lavoratori la programmazione della propria crescita individuale e collettiva: si sono acquistate le case di abitazione, si sono sostenuti gli studi dei giovani, si è migliorata la qualità della vita con l’utilizzo di autovetture, elettrodomestici, vacanze, e tanti altri indicatori di crescita che hanno trovato radice nella certezza della retribuzione che ha consentito l’accesso al credito. Venuta meno questa condizione primaria – non solo e non tanto per l’abuso con cui alcune frange più estremiste hanno inteso appesantire gli oneri che ne derivano – ma per il costo sociale collettivo che ne è scaturito da una legislazione nient’affatto bilanciata e lungimirante.
Su queste colonne si leggono spesso interventi qualificati per individuare nuovi percorsi in grado di assicurare sviluppo e ripresa ed è divenuto indispensabile abbandonare ogni ipotesi di assistenzialismo di tipo sovietico che è la negazione della crescita e dello sviluppo come anche ogni tentativo di liberalizzazione indiscriminata che riporterebbe l’umanità ai livelli di sfruttamento impensabili per l’epoca attuale. La direzione non può che essere la tutela della persona in ogni aspetto, ivi compreso e soprattutto quello della dignità lavorativa il cui costo non può che essere a carico della collettività, purché l’azione sia finalizzata allo sviluppo mediante programmi di investimenti e crescita formulati sulla base delle concrete risorse disponibili e condivisi tra gli attori sociali.