Ci sono romanzi che fungono da specchi. Specchi sui quali è possibile vedere riflessa la propria storia e le proprie battaglie, le vittorie e le sconfitte che la vita riserva ad ognuno di noi durante l’esistenza terrena. Specchi in cui è possibile leggere ogni storia umana nella sua drammaticità e problematicità. C’è ogni vita umana nel dramma del prete fuggiasco senza nome protagonista del libro Il Potere e la gloria di Graham Greene, romanzo pubblicato nel 1940 e considerato un classico della letteratura cattolica del ventesimo secolo. Non a caso il protagonista del romanzo non ha nome, perché in quel “piccolo uomo” ognuno può leggere la propria storia.
Tabasco, Messico anni trenta. Durante la persecuzione anticattolica del governo ateo massonico di Plutarco Elías Calles, chiese, croci, libri e immagini religiosi, preghiere e benedizioni sono banditi dalla furia iconoclasta che nasconde il proprio odio travestendolo da amore per i più deboli e poveri. Lo scopo è quello di sradicare la Chiesa cattolica dalla vita e dal cuore della gente. Greene – che pubblicò un saggio sulla vicenda politica e sociale del Messico di quegli anni – la definì “la più feroce persecuzione religiosa dai tempi di Elisabetta”. La caccia ai preti ha un enorme successo: tra lo sbalordimento di un popolo profondamente cattolico su ogni prete pende una condanna: tradimento. La cattura e la fucilazione sul muro bianco del cimitero è pressoché inevitabile. Le alternative sono la fuga o l’abiura. Così padre José – sovrastato dalla paura del dolore e della morte – dimette l’abito clericale rinunciando alla propria missione per sposare la sua perpetua e terminare i suoi giorni disprezzandosi e venendo disprezzato dai suoi vicini e correligionari, relegato nei confini della propria abitazione, governato dalla moglie, dimentico della gloria passata e della missione a lui affidata.
Non così il piccolo uomo protagonista della storia, che fugge dalla polizia nascondendosi con la speranza di lasciare il paese. Il ricordo del fasto e del rispetto ricevuto, di una vita agiata e comoda, è sempre più sbiadito. Ora è simile a un mendicante al punto di apparire irriconoscibile persino ai propri nemici; non si distingue da quei poveri a cui porgeva la mano per un bacio in cambio di una buona predica, di una benedizione e dei sacramenti. Sporco, logoro, affamato, ferito, il piccolo uomo fugge di casa in casa, di villaggio in villaggio cercando rifugio e riparo.
Ma un macigno impedisce i movimenti del corpo e schiaccia la sua anima: è il peso insopportabile del suo peccato, dei vizi, degli sbagli commessi, della dipendenza e dell’orgoglio («il peccato che aveva fatto cadere gli angeli»). Nella sua testa risuonano continuamente le risate e le burle di chi lo definisce “il prete dell’acquavite” o “padre whisky” a causa della sua manifesta dipendenza dall’alcool, anch’esso proibito dalle autorità. Un doppio tradimento, quello di chi cedendo alla tentazione viola sia la legge degli uomini che quella di Dio, tradendo così se stesso e il gregge a lui affidato che con timore lo protegge come se proteggesse un uomo di Dio. “Essi meritano che un martire si prenda cura di loro, non uno stupido come me, a cui piacciono le cose errate”.
C’è il dramma di ogni uomo nella fuga senza fine di un uomo accusato di tradimento sia dalle autorità politiche che dalla propria coscienza. In fuga dalla morte, in fuga dagli uomini, in fuga da Dio. Ma se è possibile sfuggire ai propri simili, nascondendosi, camuffandosi, affidandosi alle proprie abilità, alla fortuna e alla stupidità umana, non è facile nascondersi alla propria coscienza né tanto meno a Dio che scruta nel cuore di ogni uomo. Per questo la morte non è il primo dei pensieri per il prete fuggiasco, ma è il suo dramma interiore a bruciare nelle notti insonni, a tormentarlo durante le giornate di fuga. Al suo irrefrenabile desiderio di bere si aggiunge un peccato commesso anni prima, commesso quasi per noia in un momento di poca lucidità, il cui frutto amaro diventa una ossessione. Da quel suo tradimento è nata una bambina – che incontrerà fortunatamente durante una delle tappe del suo vagabondaggio – per la quale non può fare altro che pregare. Si può arrivare ad amare il frutto del proprio peccato al punto di chiedere per se stessi la condanna eterna in cambio della salvezza della figlia? È una delle domande che bruciano come la sete nella gola.
“Era un uomo che avrebbe dovuto salvare le anime” ma si rendeva conto di essere incapace di salvare la propria. “Egli era conscio della propria disperata insufficienza“. Alla visione lacerante della propria miseria si aggiunge la visione, sempre più completa e chiara, della miseria umana. L’intreccio di personaggi, ricchi e poveri, oppressori e oppressi, dai contorni morali mai nitidi e chiari, fa emergere l’abisso del cuore umano che solo Dio può giudicare e perdonare.
In questo continuo susseguirsi di sogni e incubi tornano le immagini di una vita passata, fatta di onori e di riconoscimento, tra cerimonie festose, pie donne, confraternite, donazioni e cene di gala ricche di scherzi, risate e complicità. Scene fissate nella memoria che ritraggono una società dove regna una morale di facciata dai contorni ben definiti. Ma nulla sarà più come prima. La rivoluzione ha contribuito a scardinare ogni vestigia di una società cattolica dove l’apparenza ha la meglio sul pentimento e la facciata sulla sincerità del cuore. Ma allo stesso tempo – e in maniera provvidenziale – è proprio la nuova condizione che permette di conoscere più profondamente il proprio cuore e quello degli altri. È scendendo nell’abisso della miseria, rappresentato da una piccola cella carceraria buia e affollata («quel luogo era molto simile al mondo: traboccante di lussuria, di crimini e d’amore infelice»), è scendendo in quel profondo sheol, che il prete comprenderà che il dramma dell’esistenza accomuna tutti gli esseri umani, dalla pia donna all’assassino, dal prete al luogotenente. Perché ogni percorso umano è un labirinto (il titolo del romanzo in Stati Uniti è proprio Labyrinthine Ways) in cui è necessario districarsi nel disperato tentativo di cogliere ciò che conta abbandonando il superfluo. E ciò che veramente conta, riconoscerà il piccolo uomo, è essere santi. Tutto il resto è illusione, distrazione, smarrimento nel labirinto della propria esistenza. In fondo – riflette il prete – è per questo mondo, per questa umanità che Cristo è morto. Per questo, nonostante la sua miseria, il “piccolo uomo” continua a difendere, per quanto possibile, la sua vocazione di “uomo di Dio”.
Il potere e gloria umana si contendono dunque il primato col potere e la gloria divina. A partire dallo stesso prete, che visse un’epoca in cui poté rappresentare e detenere potere e gloria di fronte agli uomini, fino a coloro che poi gli daranno la caccia legittimati da una legge ingiusta e liberticida. Tutti gli uomini cercano spasmodicamente di conquistare ciò che, alla fine, appartiene a Dio e che solo lui può donare gratuitamente. Ma è nel riconoscimento del proprio limite e della propria inadeguatezza che ci si rende conto che ciò che conta è affidarsi alla misericordia di Dio e difendere per quanto possibile la propria vocazione, qualunque essa sia.