La testimonianza della Comunità Giovanni XXIII di don Benzi che accoglie i malati del Covid-19

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Da poco meno di un mese il Royal di Cattolica da hotel è stato riconvertito in una struttura che ospita i malati di Covid-19 dimessi dagli ospedali perché hanno superato la fase acuta. La struttura di proprietà della Comunità Papa Giovanni XXIII, un bene ricevuto in dono, ha aperto le sue porte a quelli che sono i nuovi poveri di questa emergenza. Persone che aspettano l’esito dell’ultimo tampone per essere legalmente e clinicamente dichiarati guariti, altri che non hanno un posto dove poter passare la quarantena o chi non ha chi si prenda cura di loro perché soli.

Un modello sperimentale

Dopo aver seguito un protocollo messo a punto dall’Azienda sanitaria locale, in collaborazione con la Protezione Civile e la supervisione della prefettura, l’Hotel Royal si è trasformato in una sorta di ospedale, un modello sperimentale – così come previsto nel recente decreto “Cura Italia” – allo scopo di alleggerire la pressione sugli ospedali della provincia di Rimini, una delle zone più colpite dall’emergenza sanitaria causata dal coronavirus.

L’intervista

L’Apg23 mette così in campo la sua decennale esperienza nell’accoglienza degli ultimi e dei poveri, rispondendo a una richiesta che non poteva essere ignorata. Interris ha intervistato il direttore dell’Hotel Royal, Giampiero Cofano.

Perché avete deciso di riconvertire l’Hotel Royal di Cattolica in una struttura per pazienti affetti da coronavirus che hanno superato la fase acuta?
“In seguito all’emergenza sanitaria, abbiamo risposto a una richiesta che ci è stata fatta dal Prefetto di Rimini, ossia di reperire quanti più posti per coloro che, dimessi dagli ospedali, hanno necessità di un posto per fare la quarantena e continuare il percorso verso la negativizzazione dal virus in un luogo con un alto standard di sicurezza, ma con tutti i servizi necessari. La Comunità Papa Giovanni XXIII ha questo hotel di sua proprietà, un bene ricevuto in dono, con il quale ha sempre cercato di rispondere alle varie esigenze dei membri dell’associazione e non solo. Negli ultimi anni è stato utilizzato anche per l’accoglienza di migranti. In questo periodo l’emergenza e i ‘nuovi poveri’ che ci hanno interrogato sono i malati di coronavirus”.

Esiste un rischio contagio per gli operatori?
“La certezza matematica e assoluta non si può avere, ma oggi anche andare al supermercato può essere molto rischioso. All’interno dell’Hotel Royal sono state fatte delle modifiche strutturali alle camere e negli appartamenti: all’interno sono stati lasciati solo gli elementi essenziali per limitare le superfici dove il virus avrebbe potuto trovare terreno fertile. I pazienti che arrivano entrano da un ingresso separato, che li conduce direttamente alle scale che portano ai piani. Non c’è contatto con loro, a lato della porta della loro stanza c’è un tavolinetto dove appoggiamo il pranzo, o l’acqua o quello che ci chiedono. Dalla reception, una volta che il nostro operatore non si trova più nel corridoio, vengono chiamati e avvisati che possono ritirare quanto ci hanno chiesto. Una volta rientrati nella loro camere devono avvisare. Questo perché abbiamo cercato di mettere in atto tutta una serie di misure, affinché non ci siano incontri, anche involontari, tra operatori – che sono dotati di tutte i dispositivi di protezione individuale – e pazienti. Inoltre, nonostante la richiesta dell’Asl di fare la disinfezione con il cloro 0,5, per maggiore sicurezza, noi utilizziamo anche la sanificazione con ozono. Sette degli operatori, da quando sono entrati sono in autoisolamento dentro l’hotel, io sono l’unico autorizzato ad entrare”.

Come è la vita all’interno dell’hotel?
“Gli ospiti dell’hotel non sono autorizzati a lasciare la loro stanza. Hanno l’obbligo di rimanere chiusi in appartamento o in camera, non possono uscire per i corridoi se non per ritirare il proprio pranzo o le altre cose che ci chiedono. Sono in autoisolamento e controlliamo che questo avvenga, ma tutti hanno interesse a stare bene. Da noi ci sono persone fra i 60 e gli 80 anni. Molti di loro non potevano tornare a casa propria perché non c’erano le condizioni minime per l’isolamento o di sussistenza. Durante il giorno, li sentiamo sempre, tra le reception e le camere c’è un continuo dialogo, comunichiamo all’ospedale se ci sono dei problemi. Si cerca di dare anche supporto psicologico”.

Cosa vi raccontano? C’è più disorientamento o paura?
“Ci ringraziano molto perché si sentono accolti e trattati bene. Sono anche contenti perché sono quasi fuori dal tunnel della malattia. Qualche volte ci si saluta dai balconi, ho fatto una chiacchierata con una signora di 82 anni che mi ha chiesto delle riviste perché aveva voglia di leggere. La prima paziente non la dimenticherò mai, è una signora ucraina che faceva la badante. Lei parlava male l’italiano, ma per fortuna uno degli operatori è ucraino e quindi siamo riusciti a comunicare. Adesso ci sono due signori senegalesi e uno dei ragazzi parla francese. E’ comunque un mondo variopinto, umano. In questo momento siamo tutti sulla stessa barca, non c’è condizione o estrazione sociale che fa distinzione”.

Puoi raccontarci un aneddoto?
“Un signore ha ordinato delle cose al supermercato online e ci ha avvisato. Dalla borsa di spesa, oltre alle brioche o altro, abbiamo visto che c’erano due bottiglie di vino. Lo abbiamo chiamato perché non ci sembrava il caso di portarglielo in camera e lui ha risposto: ‘Il vino non è per me, ma per voi. Bevete alla mia salute'”.

Qual è la lezione che può derivare da questa esperienza?
“Oggi si è poveri tutti di fronte al virus, c’è stato un livellamento sociale. Il virus non guarda in faccia a nessuno. La nostra Comunità ha sempre questa capacità, in virtù della sua vocazione, di accoglienza in ogni di frangente di povertà umana. Anche in questo momento siamo riusciti a dare una risposta. E’ stato bello il riscoprirsi e il reinventarsi anche nel bel mezzo della pandemia. Ma l’esperienza dell’accoglienza, ci sta mettendo alla prova anche di fronte a questa nuova povertà umana, di guerra in un certo senso”.

Cosa pensi avrebbe detto don Oreste Benzi, fondatore dell’Apg23, di questa iniziativa?
“Io voglio essere un po’ presuntuoso: secondo me don Oreste ci sta facendo un applauso interminabile dall’alto. Ci sta dicendo: ‘Bravi perché questa è la vera condivisione con gli ultimi’. Sono sicuro che lui vorrebbe essere lì e ci chiederebbe di celebrare la messa. Son sicuro che farebbe il regalo della Messa tutto i giorni. Lui è stracolmo di gioia, vede i suoi giovani che hanno detto questo ‘sì’ anche di fronte alla paura, ma è vero che l’amore può far superare ogni ostacolo. Bisogna comunque essere prudenti e attenti, non si può essere approssimativi”.

 

Manuela Petrini: