La pandemia a Gaza, una potenziale bomba a orologeria

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“Il trasferimento non doveva farsi nel contesto in cui è avvenuto… (è stata una mossa) miope e frivola…Ma ora che è fatto non tornerei a trasferire l’ambasciata a Tel Aviv”. Parola di Joe Biden, candidato dem alla Casa Bianca in un momento storico in cui, dati alla mano, delle elezioni presidenziali interessa il giusto agli americani. Colpa del coronavirus, che negli Stati Uniti continua a mietere vittime, costringendo amministratori e cittadinanza a mettere da parte le vicende politiche per lasciar posto a quelle sanitarie. Che poi, in qualche modo, la politica entri ovunque è cosa nota. Biden in qualche modo l’ha ricordato, andando a tirar fuori uno degli argomenti più controversi della presidenza Trump, come il trasferimento dell’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme, dicendosi sostanzialmente d’accordo nel tenerla lì. A due anni esatti dal giorno in cui (14 maggio 2018), il presidente Trump diede seguito alla sua proposta, sollevando l’ira della popolazione palestinese.

I giorni della furia

Cinquantotto morti, solo nei giorni più strettamente vicini all’inaugurazione. Un’ecatombe che cosparse di sangue la Striscia di Gaza, nella zona della barriera difensiva, dove 15 mila palestinesi si erano avvicinati per dar sfogo alla loro furia. Cinque mesi, dall’annuncio all’inaugurazione, di violenza e di protesta: si sollevano i Territori palestinesi, feriti dalla decisione di Donald Trump che, di fatto, riconosce la Città Santa di Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele. Due anni esatti da quella data, dalla rovente protesta a ridosso del confine, da uno scenario geopolitico che, in quel momento, focalizzava l’attenzione internazionale su quanto accadeva lì nella Striscia di Gaza, accendendo i riflettori sui risvolti tangibili di una furia millenaria.

Il Covid a Gaza

Oggi, però, la ricorrenza rischia di passare decisamente più inosservata. C’è di mezzo una pandemia stavolta, che distoglie quei riflettori internazionali praticamente da qualunque contesto, ancor di più da una striscia di territorio che, anniversario o no, ha a che fare quotidianamente con un dramma umanitario che va ben al di là della semplice discordanza etnico-territoriale: “Gaza in realtà ha altri problemi che lo stesso anniversario – ha spiegato a Interris.it Giuseppe Dentice, associate research fellow Medio Oriente e Nord Africa dell’Ispi -, nel senso che la situazione da un punto di vista sanitario è grave, poiché il Covid sta incidendo fortemente in un contesto già indebolito da un’emergenza cronica. A Gaza ci sono state tre guerre in meno di un decennio e, a queste, aggiungiamo le questioni interne alla governance: Hamas e i problemi coi gruppi della galassia palestinese, tutti in conflitto per un potere fattuale in grado di garantire sopravvivenza politica“.

Un contesto di sofferenza

In sostanza, in un contesto già fortemente provato da anni di conflitti, bordate e offensive più o meno devastanti, “la questione dell’anniversario diviene è più simbolica che politica… O, quantomeno, non è così dirimente nella Striscia di Gaza. Semmai può essere usato in modo strumentale per ricordare l’Accordo del Secolo, più in una chiave israelo-palestinese”. Urgenze più impellenti attraversano i Territori palestinesi, prima fra tutte l’emergenza coronavirus: “Va da sé che Gaza rappresenta una bomba a orologeria. Il numero dei contagi ufficialmente è basso ma è presumibile pensare che, visto il sovraffollamento e il potenziale di contagio, i dati siano superiori a quelli dichiarati ufficialmente. Aggiungiamoci anche le difficoltà di gestione economica e sociale, le condizioni delle strutture abitative e sanitarie. Poi le difficoltà legate al fatto che Israele utilizza questa situazione per creare pressioni sull’establishment di Hamas. Un altro modo per vedere come le parti utilizzino il Covid per darsi battaglia politica.

Il quadro israeliano

Ma la ricorrenza inevitabilmente cade anche per Israele, un Paese politicamente travagliato, alle prese con un’incertezza elettorale quasi unica, tradotta in tre elezioni in dodici mesi, praticamente un record: “E’ innegabile che l’effetto coronavirus in Israele ha avuto il suo peso ma forse in modo minore rispetto ad altre realtà mediorientali. Il Covid ha comunque influenza forte nel delineare la struttura del governo in procinto di giurare”. Un esecutivo giunto a un compromesso, forse l’unica strada possibile a fronte di un elettorato che aveva preferito non sbilanciarsi e di un’inconciliabilità che, finora, aveva tenuto Netanyahu e Gantz praticamente agli antipodi: “C’erano le condizioni per un accordo, non il migliore possibile ma che rappresenta un valico per il discorso dell’Accordo del secolo: una delle condizioni, l’opportunità che Israele possa dare subito il via all’annessione di alcune parti della Cisgiordania, relative a gran parte delle colonie ebraiche. Potrebbe essere poi un preambolo per allargare gli spazi verso altri territori, tra cui la Valle del Giordano che è il vero obiettivo. In questo senso, il secondo anniversario dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, pur importante, non è così rilevante. Nelle scorse ore, la visita di Pompeo in Israele è servita non tanto per ribadire la vicinanza statunitense, quanto per mettere di nuovo il cappello su questo accordo, importante per definire la strategia geopolitica degli Stati Uniti in Medio Oriente”.

Sguardo distolto

Difficile, a questo punto, tracciare una continuità politica nelle dichiarazioni di Biden: “La visione politica segue traiettorie estranee alla retorica. Le parti sono convergenti e anche gli stessi democratici non hanno mai sollevato questioni. Ciò che veniva addidato a Trump era di cambiare l’approccio politico sulla situazione israelo-palestinese mettendo in difficoltà le strategie in campo sullo scenario mediorientale. Gli Usa sono più preoccupati di altre questioni, non solo il coronavirus ma anche di altri scenari geopolitici, in questo momento ben più caldi rispetto alla questione israelo-palestinese”.

Damiano Mattana: