La valutazione pessimistica della “fine del lavoro” rimbalza da diversi anni, soprattutto nel mondo occidentale, tra gli studiosi, i sociologi e gli economisti, preoccupati per l’imponente sviluppo della tecnologia. Quest’ultima ha rappresentato sempre uno spauracchio per i lavoratori, sin dalla seconda rivoluzione industriale di fine Ottocento, in cui i contadini sono stati costretti a lasciare la campagna per la città e la fabbrica ma, spesso, hanno costituito la “povertà moderna”, tra degrado, miseria e disoccupazione. I più “fortunati”, gli operai specializzati, hanno contenuto il disagio; la manodopera generica ha pagato un prezzo altissimo. In sintesi, la tecnologia non diminuì le opportunità di lavoro, creò una nuova classe di sfruttati.
Gli sviluppi attuali dell’automazione, della robotica e dell’intelligenza artificiale, ancora non prevedibili a sufficienza, pongono interrogativi, dubbi e paure. Il timore della sostituzione uomo/macchina si rende più concreto. Le criticità di un eccessivo e frenetico processo tecnologico, a livello personale e sociale, sia nell’informatica sia nei social sia nella strumentazione a supporto dell’essere umano, dovrebbero già aver insegnato qualcosa e funzionare come monito per altre perigliose accelerazioni.
Si profila una conflittualità uomo-macchina. Quest’ultima, costruita per aiutare gli umani nel lavoro e nella vita quotidiana, finisce per esserne la castigatrice. I dati statistici, però, sembrano, al momento, prospettare il contrario. L’Istat ha indicato, nel mese scorso, i dati relativi al mercato del lavoro-II trimestre: fra questi, si legge “Nel secondo trimestre 2023, gli occupati aumentano rispetto al primo trimestre 2023 (+129 mila, +0,6%), a seguito della crescita dei dipendenti a tempo indeterminato (+130 mila, +0,8%) e degli indipendenti (+23 mila, +0,5%) che ha più che compensato il calo dei dipendenti a termine (-25 mila, -0,8% in tre mesi); diminuiscono invece sia i disoccupati (-64 mila, -3,2% in tre mesi) sia gli inattivi di 15-64 anni (-66 mila, -0,5%)”.
I processi di delocalizzazione ed esternalizzazione rappresentano l’interesse della produzione a costi e condizioni sempre più vantaggiosi per l’imprenditoria, tralasciando qualsiasi scrupolo. In base a tale principio utilitaristico, tuttavia, si perviene anche a una sorta di delocalizzazione cognitiva, non più solo fisica e territoriale, ma di trasferimento dalla persona alla macchina.
Una ricostruzione, esclusivamente ciclica, delle congiunture sociali ed economiche (di passaggio da una fase all’altra), può risultare riduttiva e inadeguata: finora le criticità di transizione sono state assorbite da ristrutturazioni del mondo del lavoro ma potrebbe non essere sempre così.
Il professor Aaron Benanav, sociologo e storico dell’economia, è l’autore del testo “Automazione” (sottotitolo “Disuguaglianze, occupazione, povertà e la fine del lavoro come lo conosciamo”), pubblicato da “Luiss University Press” nell’ottobre dello scorso anno. Parte dell’estratto recita “Ci stiamo dunque avviando verso il crepuscolo del lavoro umano? Secondo Aaron Benanav ci sono molti buoni motivi per dubitare di tutta questa frenesia futurista. Del resto, anche se l’automazione dovesse comportare la liberazione collettiva dalla fatica fisica del lavoro, noi continueremmo comunque a vivere in una società nella quale la maggior parte delle persone deve lavorare per vivere”.
L’intelligenza artificiale muove i passi in una sua fase nuova, “adolescenziale”, che ha superato quella “infantile” e spaventa per le sue future prospettive: impara dall’intelligenza umana e, intorno al 2030, dovrebbe raggiungerla per poi superarla. L’AI (Artificial Intelligence) non va considerata con sufficienza, come una semplice (e fallace) emulatrice delle attività umane, poiché, in realtà, impara dagli errori e cresce.
Al momento, le macchine e i robot non sono capaci di pensiero creativo e di problem solving ma l’AI potrebbe fornirgli proprio la capacità di questo salto di livello.
La tecnologia taglia posti di lavoro ma, se usata con criterio, ne può sviluppare altri. ticonsiglio, portale specializzato sulle novità riguardanti il mondo del lavoro, al link https://www.ticonsiglio.com/lavori-futuro/#le_soft_skills_del_futuro, indica le abilità, le “10 soft skills più richieste nei prossimi anni: 1. pensiero analitico e innovazione; 2. apprendimento attivo e strategie di apprendimento; 3. capacità di risolvere problemi complessi; 4. pensiero critico e capacità di analisi: 5. creatività, originalità e spirito di iniziativa; 6. leadership e influenza sociale; 7. uso di tecnologie, monitoraggio e controllo; 8. progettazione e programmazione tecnologica; 9. resilienza, gestione dello stress e flessibilità; 10. Ragionamento, problem solving e ideazione”.
Non tutto è perduto: all’imponente digitalizzazione si affiancano nuove prospettive lavorative, per una società sempre più fondata sui servizi e sul terziario, sulle occupazioni immateriali e astratte. Si sviluppano, così, profili di consulenza, di comunicazione e risoluzione di problemi.
Il lavoro manuale è considerato come prima vittima della robotizzazione. Occorrerà valutare gli aspetti futuri, al momento, nonostante le preoccupazioni, non mostra cedimento: si è spostato da alcuni settori (a esempio le industrie) per calarsi in nuove realtà (tra queste, le spedizioni, i corrieri) dimostrando duttilità e resilienza.
È nelle mani dell’essere umano la possibilità di evitare tracolli e punti di non ritorno, ponendo sempre la tecnologia al servizio della persona. Il limite sembra essere più labile di quanto sia mai stato. È necessario, inoltre, vigilare affinché questa sorta di fine del lavoro non si concretizzi soltanto in un senso: in un’ulteriore penalizzazione per le fasce più deboli e a rischio, meno formate e meno protette.
All’Udienza Generale del 19 agosto 2015, Papa Francesco precisò “Lavorare – ripeto, in mille forme – è proprio della persona umana. Esprime la sua dignità di essere creata a immagine di Dio. Perciò si dice che il lavoro è sacro. E perciò la gestione dell’occupazione è una grande responsabilità umana e sociale, che non può essere lasciata nelle mani di pochi o scaricata su un ‘mercato’ divinizzato. Causare una perdita di posti di lavoro significa causare un grave danno sociale. Io mi rattristo quando vedo che c’è gente senza lavoro, che non trova lavoro e non ha la dignità di portare il pane a casa. E mi rallegro tanto quando vedo che i governanti fanno tanti sforzi per trovare posti di lavoro e per cercare che tutti abbiano un lavoro. Il lavoro è sacro, il lavoro dà dignità a una famiglia. Dobbiamo pregare perché non manchi il lavoro in una famiglia”.
Si assiste, spesso, a una palese contraddizione. Da un lato, lo sfruttamento intensivo del lavoratore, per colmare nuovi spazi e nuove esigenze del consumatore esasperato o bisognoso di servizi, dall’altro si paventa, a breve, una fine dell’attività lavorativa. Si presenta la fattispecie di una corsa verso il crinale di una montagna che poi, doppiata la cima, proietta verso il baratro. Trionfa la superficialità del consumismo, dell’immediato, del carpe diem, del prendere il più possibile, a prescindere, senza una minima lungimiranza.
La flessibilità, la precarietà lavorativa e i contratti a tempo determinato, hanno creato una base fragile, in cui, la “quarta rivoluzione industriale” che si sta proponendo, potrebbe scatenare uno tsunami, trovando la strada libera e incontrastata.
Quello che dovrebbe finire è il lavoro sommerso, sfruttato, malpagato e precario, a fronte di uno sicuro, trasparente, dignitoso e forte da poter fronteggiare ogni evoluzione sociale ed economica.
Il lato debole dell’occupazione non è soltanto la risultante di forze esterne, economiche, sociali, istituzionali e tecnologiche. Dal di dentro, il lavoro è compromesso nella sua stessa natura quando è “in nero”, senza tutele, senza contratti e senza futuro, fondato sulla totale incertezza. Un mondo del lavoro già minato di suo, si scontra con le congiunture esterne.
Al momento, per alcuni la riduzione dell’orario di lavoro è una calamità economica che il mercato non può permettersi, per altri è una delle ancore di salvezza dall’automazione. A rischio sono sempre le fasce più deboli: quelle di vertice sono più lontane (ma non esenti) dai futuri rischi e in grado di accrescere i propri redditi. La forbice e la polarizzazione sociale sono in crescendo, per questo la disoccupazione strutturale dell’automazione potrebbe colpire le fasce più basse.
Nel corso dei secoli, il mercato ha privilegiato i lavoratori più arrendevoli, quelli meno cari, richiedenti meno diritti e tutele. In tale ottica, un robot o una macchina potrebbero essere visti, con scarsa lungimiranza sul futuro dell’umanità (ignorando anche contraccolpi di ritorno, a effetto boomerang), come l’ideale dello sfruttamento e dei ricavi: orario h24, niente tutela, zero costi, nessuna vertenza, solo profitti.
Occorre evitare la solitudine e la divisione, puntando su un antidoto imbattibile: quello del senso di comunità e di solidarietà. L’egoismo, infatti, può profittare di questa svolta epocale, ha l’occasione di stravincere, portandosi con sé i più resistenti (finché potranno poiché la sopraffazione divide ed elimina senza freni) e lasciando sempre più indietro quelli che arrancano.
Nell’arena, sempre più solitaria e cieca, anche i più tenaci saranno sopraffatti.