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La favelizzazione: espressione delle disuguaglianze sociali

Il rischio favelizzazione riguarda l’intera Europa: sono interessate tutte le Nazioni, anche quelle più ricche e insospettabili come la Svizzera

La “favelizzazione” è un processo contemporaneo che, complici la crisi economica e l’instabilità internazionale, produce un aumento delle baraccopoli urbane. Tali insediamenti, che assumono diverse denominazioni: “favela” in Brasile, “slum” per gli inglesi e “bidonville” per i francesi, rappresentano la fotografia dello scarto e della povertà. Un altro termine francese, quello di “banlieue”, ricorre spesso per indicare le periferie “meno fortunate” delle grandi metropoli transalpine, in genere abitate da immigrati. In passato, in piena segregazione razziale e spaziale, vi erano alcune urbanizzazioni (a esempio Soweto in Sudafrica) definite “township”, in cui vivevano solo persone di colore.

Le prime forme di degrado urbano, soprattutto in Europa, si sono evidenziate alla fine dell’Ottocento, quando la rivoluzione industriale costrinse i contadini a lasciare le campagne per trovare fortuna in città. Tali masse, peraltro poco specializzate, conobbero situazioni di sradicamento e alienazione nonché forme estreme di povertà, di condizioni abitative e igieniche. Da lì, le condizioni socioeconomiche, provate dalle due guerre mondiali, dalla crisi finanziaria del ‘29, dall’inflazione, l’automazione e la disoccupazione crescente, sono rimaste proibitive per milioni di individui e le baraccopoli sono diventate metropoli radicate nel territorio.

I materiali utilizzati per realizzare le abitazioni di fortuna delle favelas sono scarti della società, pezzi vari ricavati dall’immondizia altrui e, nel peggiore dei casi, rifiuti cancerogeni come eternit e amianto. Le baracche sono fortemente esposte, con gravi conseguenze, nei casi di violenti fenomeni atmosferici. Si tratta di zone dove anche l’accesso all’acqua potabile è proibitivo, in cui l’alimentazione di giovani e adulti è compromessa, in totale assenza delle condizioni igieniche essenziali, prive di medicinali fondamentali e, in un ambito, così provato, la dimensione scolastica diviene l’ultima delle priorità e delle opportunità. Sono spazi in cui la criminalità, legata, in particolare, alla prostituzione e alla droga, utilizza bambini e ragazzi. Lo sfruttamento si svolge anche attraverso l’ignobile pratica del traffico di organi umani.

In queste “città invisibili” (o che non si vogliono vedere), stimate in Italia in circa 90, “risiedono” migliaia di persone, soprattutto migranti. Ulteriore elemento da considerare è l’abbandono di ogni speranza da parte chi vi abita, poiché se l’illusione e le promesse sono improntate sulla temporaneità, la condizione sembra sempre più assumere la caratteristica della stabilità.

Il 27 novembre del 2015, dinanzi agli abitanti di una bidonville di Nairobi (Kenya), Papa Francesco affermò “Voi siete in grado di tessere ‘legami di appartenenza e di convivenza che trasformano l’affollamento in un’esperienza comunitaria in cui si infrangono le pareti dell’io e si superano le barriere dell’egoismo’. […] Vorrei rivendicare in primo luogo questi valori che voi praticate, valori che non si quotano in Borsa, valori con i quali non si specula né hanno prezzo di mercato. […] Il cammino di Gesù è iniziato in periferia, va dai poveri e con i poveri verso tutti.

L’architetto Andrea Valeriani è l’autore del volume “La città di latta e la città di vetro” (sottotitolo “Utopie e distopie della metropoli brasiliana contemporanea”), pubblicato da “Franco Angeli” lo scorso 8 marzo. L’abstract è il seguente “Quella del III Millennio è una città che parla di crisi: sovrappopolamento, insostenibilità ambientale, diseguaglianze sociali. Assumendo il caso della metropoli brasiliana come paradigmatico della condizione urbana attuale, questo libro studia i fenomeni che determinano la conflittualità intrinseca alle ‘città globali’ del nostro tempo”.

Il Rapporto sugli Obiettivi di sviluppo sostenibile (Sustainable Development Goals, SDGs), pubblicato dall’Istat il 12 ottobre scorso e riferito al 2022, visibile al link https://www.istat.it/storage/rapporti-tematici/sdgs/2022/Rapporto-SDGs-2022.pdf precisa “Nel 2021, circa 5,6 milioni di individui (9,4%) sono in condizioni di povertà assoluta. Rispetto al 2020, l’incidenza della povertà è rimasta stabile a livello nazionale, con una diminuzione nel Nord-ovest (-2,1 punti percentuali) e un aumento nel Nord-est (+0,4 p.p.), al Centro (+0,7 p.p.), al Sud (+1,5 p.p.) e nelle Isole (+0,1 p.p.). L’incidenza della povertà è lievemente diminuita per tutte le fasce di età, tranne che per i più giovani (0- 17 anni) per cui è aumentata di 0,7 p.p. Nel 2021, il costo dell’abitazione rappresenta un peso difficilmente sostenibile per il 7,2% della popolazione, dato stabile rispetto al 2020 e sui livelli minimi del periodo. Nell’ultimo decennio, le distanze tra le regioni si sono leggermente ampliate. Il rischio di povertà o esclusione sociale rimane pressoché stabile tra il 2020 e il 2021 (25,4%, +0,1 p.p.), ma comunque elevato nel confronto europeo, collocando l’Italia agli ultimi posti nella graduatoria dei Paesi della Ue. Rispetto a dieci anni prima le distanze regionali, nel complesso, non si sono ridotte”.

Il Rapporto del 2020, relativo alla “Percentuale di popolazione che vive in baraccopoli urbane, insediamenti informali o alloggio inadeguato”, visibile al link https://www.istat.it/it/files/2020/05/SDGs_2020.pdf, riportava i seguenti dati “Il sovraffollamento dell’abitazione in cui si vive è il fenomeno più diffuso mostrando un aumento nell’ultimo anno (27,8%,). È dal 2013 che la quota è superiore al 27%, mentre era pari a 23,3% dieci anni prima, nel 2009. L’Italia è tra i Paesi col valore più alto in ambito Ue28 (15,5%), al pari della Grecia e seguita da Slovacchia, Polonia, Croazia, Bulgaria e in ultimo Romania (46,3%)”.

Frwiki, al https://it.frwiki.wiki/wiki/Bidonville, afferma che “Il numero di persone che vivono negli slum sta aumentando in tutto il mondo a un ritmo compreso tra 30 e 50 milioni di persone all’anno”.

Rispetto a quanto si possa immaginare, non è la maggiore distanza di un’area periferica, rispetto al centro della città, a determinare, proporzionalmente, il grado di povertà. L’extraperiferia (o estrema periferia) non è necessariamente la zona più povera.

La problematica rientra in una “segregazione spaziale” che si oppone a qualsiasi tentativo di inclusione e certifica, territorialmente e fisicamente, la distanza fra ricchi e poveri, tra la classe media e gli “ultimi”, gli uni circoscritti in abitazioni prestigiose o decenti, gli altri nelle riserve dedicate, lontano dagli occhi e, soprattutto, dai pensieri della società che conta e assume decisioni per tutti.

Il rischio favelizzazione, alimentato dalla crisi economica del 2008, da quella originata dalla pandemia, dalle situazioni internazionali sempre più difficili (guerre e disastri climatici), riguarda l’intera Europa: sono interessate tutte le Nazioni, anche quelle più ricche e insospettabili come la Svizzera.

La globalizzazione dei tempi nostri non ha garantito quel che ha promesso: la riduzione e la fine di queste enormi sacche di povertà e ingiustizie sparse per il mondo. Nel nostro tempo, addirittura, questi contesti si sono ingranditi, non solo nel Terzo mondo. Tale nuova realtà è contrassegnata, inoltre, da elevata conflittualità, al contrario delle baraccopoli classiche, dove la solidarietà e la condivisione comunitaria della povertà, costituivano un collante sociale fra ultimi.

La considerazione dell’uguaglianza nella condizione di disagio, trasversale nel suo impietoso pragmatismo, produceva, infatti, grande solidarietà e condivisione degli stessi interessi.

La polarizzazione fra zone “in” della città e aree degradate, si riduce sempre più. Il classismo, che si manifesta anche nel settore abitativo, finisce per assottigliare le maglie e ridurre gli estremi, in un quadro che vede sempre più il ceto medio in difficoltà e proiettato verso una vita difficile, a ridosso dei quartieri degradati. L’esercito dei diseredati non diminuisce, aumenta attirando nuove persone poste “al limite”.

Per alcuni, la globalizzazione ha comunque i suoi punti di caduta e il suo prezzo deve essere pagato da qualcuno. Molte volte, il vivere in queste favelas, monumenti del degrado, all’esterno è considerata, con una visione miope e opportunista, come una scelta di vita e non una costrizione.

Alcune volte, i dati sugli abitanti delle baraccopoli sono contrastanti. È il caso di Kibera, in Kenya, dove la forbice oscilla addirittura fra i 300 mila dimoranti e i 2 milioni e mezzo. In genere, la sottovalutazione del dato è posta in essere da chi ha interesse a minimizzare il fenomeno; al contrario, ingigantire il numero potrebbe attrarre maggiore attenzione e sovvenzionamenti.

La locuzione “slum-free”, utilizzata, a volte, nel mondo, per promuovere iniziative sociali ed economiche, deve riferirsi a un’eliminazione del problema offrendo opportunità, risorse, lavoro e case, non sia un sottile intendimento ad allontanare fisicamente le baracche, confinandole sempre più.

Si spera che il turismo della povertà, il cosiddetto “slum tourism”, possa portare risorse e non limitarsi a una morbosa visione di quelle figure, anonime, che si aggirano fra le lamiere e la miseria.

Gli sforzi, politici e istituzionali, sono rivolti a una riqualificazione ambientale del territorio, attraverso iniziative volte a rendere sempre più ecologiche e salubri, a emissioni zero, le abitazioni. L’impegno è imponente, deve riguardare le nuove baraccopoli che si formano di continuo e far regredire, fino all’eliminazione totale, quelle più datate, fornendo, in sostituzione, case decenti e dignitose, di beneficio collettivo.

In una società della precarietà, dell’instabilità e dell’incertezza lavorativa, abitativa e sociale, l’unica certezza sembra essere, paradossalmente, proprio quella di non sfuggire da tale dramma. Nelle favelas manca tutto, anche l’ascensore, quello sociale, che consente sbocchi diversi e la possibilità di uscire dalla miseria. Gli abitanti sembrano rassegnati a una vita che non cambierà, a una segregazione sociale che rimarrà sempre la stessa.

La forte identità culturale, di carattere tradizionale e popolare, rimane l’ultimo patrimonio a disposizione delle popolazioni degli slums. Vale la pena ricordare un elenco dell’esclusione: siamo nell’era del checkpoint, dei muri (impreziositi dai cocci di vetro), delle barriere, dei blocchi di cemento, del filo spinato, della guardiania privata in aggiunta a quella istituzionale e delle videocamere: le distanze sono marcate, difese, presidiate col fuoco, armate.

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