Gli italiani di ora e quelli di allora

In occasione della festa della Repubblica, l’intervista di Interris.it al fondatore e presidente del Centro studi investimenti sociali (Censis) Giuseppe De Rita

Nell'immagine: a sinistra foto di MLbay da Pixabay, a destra foto © Andrea Calandra

La repubblica italiana compie 78 anni. Al referendum istituzionale del 2 e 3 giugno 1946 quasi 25 milioni di cittadini si recarono alle urne per decidere la forma di governo dello Stato. Un esercizio di democrazia, dopo una dittatura lunga vent’anni. Scelsero la repubblica al posto della monarchia, inaugurando una nuova stagione per il Paese, aperta anche dal riconoscimento del diritto di voto alle donne. Dalle macerie, morali e materiali, del totalitarismo e della guerra, con le infrastrutture gravemente danneggiate e un apparato industriale da riconvertire dopo la produzione bellica, gli italiani vollero risollevarsi e negli anni Cinquanta si assistette al cosiddetto miracolo economico, con l’ingresso del nostro Paese nella “società dei consumi”. Avanti veloce, sette decenni dopo. Nel suo ultimo rapporto sulla situazione sociale del Paese, giunto alla 57esima edizione, il Centro studi investimenti sociali (Censis) definisce la società italiana come “affetta da sonnambulismo”, ritirata sul soddisfacimento dei bisogni e dei desideri personali, come buona parte dell’Occidente, senza né sguardo lungo né coesione civile. Come si è esaurita questa spinta? Cos’è cambiato tra gli italiani di ora e quelli di allora? Quali sono le prospettive per una società ripiegata su stessa? Interris.it ha rivolto queste domande al presidente e fondatore del Censis, il sociologo Giuseppe De Rita, in occasione della festa della Repubblica.

L’intervista

Quanta continuità c’è tra gli italiani di ieri e di oggi?

“Vedo una grande discontinuità. Allora c’era una massa uscita dalla guerra e ognuno cercava una strada, un modo di essere, oggi siamo un Paese che ama tralasciare, termine usato anche da Giacomo Leopardi per descrivere le caratteristiche degli italiani, e che non si impegna direttamente. Si vive nel proprio intimo, senza un’appartenenza politica o religiosa”.

Al referendum del 2-3 giugno andò a votare quasi il 90% degli aventi diritto, oggi elettore su tre si astiene. Si è persa fiducia nella politica?

“La politica ha perso appeal. Prima c’erano le grandi elezioni popolari e una personalizzazione ‘alta’ della politica, si pensi a figure come Alcide De Gasperi o Pietro Nenni, oggi assistiamo a personalizzazione ‘bassa’, e a una minor attenzione alla politica. Sia perché la politica è decaduta sia per via dell’astensione generale dall’impegno collettivo”.

La sfiducia è quindi generale, non riguarda solo la politica?

“Le società moderne da liquide diventano molli, ha detto Massimo Cacciari. La società è un mondo che si autoalimenta attraverso un meccanismo di autopropulsione in difesa dell’esistente. Non c’è un grande traguardo e anche di fronte a cose che ci pongono il cambiamento davanti, come il clima o la transizione ecologica, tendiamo a preferire i nostri cambiamenti, perché li vediamo e li controlliamo direttamente”.

Nel suo ultimo rapporto il Censis scrive che si è passati dal voler fare e dall’impegno per la tutela dei diritti collettivi al “lasciar essere” e a una “coesione sociale senza vincoli”. Quali sono state le tappe del cambiamento?

“Si tratta di un processo cominciato con il Dopoguerra, con il soggettivismo e l’aumento della responsabilità personale. La ripresa è stata sostenuta da una spinta dal basso di tipo individuale, ciascuno ha fatto in proprio. Poi negli anni Settanta c’è stata la prima crisi, con le imprese straniere che lasciavano l’Italia per il timore che il Pci andasse al governo e per via del terrorismo. Lì è iniziata l’epopea dell’economia sommersa, del localismo, a cui poi negli anni Ottanta ha fatto la ricerca del marchio, del cosiddetto ‘made in Italy’. Nell’ultimo mezzo secolo, la reazione alle varie crisi sono stati gli sforzi dei singoli per non farsi ricacciare indietro. Se chiedessimo agli italiani dove vogliano che vada la società, non sanno rispondere”.

Cos’è venuto meno?

“Mancano cinghie di trasmissione intermedie. I partiti, l’associazionismo, i sindacati diventati sempre più flebili perché negli ultimi anni c’è stata una volontà politica di disintermediazione del rapporto tra il potere e i cittadini”.

Lei nel giugno 1946 era un adolescente, conserva qualche ricordo di quei giorni, del clima che si respirava allora nel Paese?

“Nel Dopoguerra c’era una dimensione comunitaria potremmo dire ‘di strada’. Si riunivano gruppi interclassisti, di 30-40 ragazzi, dove potevi trovare chi faceva la comparsa agli studi di Cinecittà come le ragazze di buona famiglia. L’incontro fra persone diverse è stato uno straordinario elemento di formazione”.