Una bagarre internazionale, sì, ma sarebbe un errore ridurre la contesa per il Grande Nord a una mera contesa fra Nazioni. In ballo ci sono interessi economici e tradizioni da salvare, approvvigionamento energetico e popolazioni intere alle quali garantire la sopravvivenza. Per nulla facile combinare tutto, inserirsi in quella che è di fatto la zuffa per l’ultima frontiera dell’uomo, bilanciando l’escalation geo-strategica e la necessaria opera di salvaguardia di popoli e ambienti. Il che, in un contesto come l’Artico, vale forse due volte. Perché il Grande Nord non è solo la suggestiva ambientazione dell’ultima, moderna, corsa in stile coloniale, ma l’avamposto della lotta al cambiamento climatico. Che, qui più che altrove, manifesta i suoi effetti più tangibili e dalle derive più pericolose.
Il piano Artico
L’avanzata nel cuore dell’Antropocene rende sempre più evidente l’urgenza della sfida climatica. E la regione artica, dove il riscaldamento globale ridisegna i paesaggi almeno quanto l’azione umana, rappresenta il centro di gravità. Clima e strategie infrastrutturali, ma anche logistiche e strategiche: tutto nell’arcata del Grande Nord. “Lo sviluppo delle conseguenze geopolitiche sociali ed economiche del cambiamento climatico dell’Artico – ha spiegato a Interris.it Marzio Mian, giornalista e analista geopolitico, autore del libro ‘Artico – La battaglia per il Grande Nord‘ (Neri Pozza) – sta andando avanti in modo impressionante nonostante tutto. Ci sono le restrizioni dovute al coronavirus, ma sui tavoli i piani continuano”.
“Ci sono sviluppi interessanti che riguardano un po’ tutto l’Artico: pensiamo al fronte americano, dopo un lungo periodo d’assenza o comunque di un ruolo secondario rispetto al protagonismo di Russia e Cina, dopo un periodo di disinteresse, nell’ultimo anno e mezzo l’amministrazione Trump si è mossa con un pezzo da novanta come Pompeo. La stessa proposta bizzarra della proposta d’acquisto della Groenlandia è strana. Indica però il cambiamento d’atteggiamento degli americani“.
Il gigante Groenlandia
In ballo, naturalmente, entrano gli aspetti geostrategici. E il colosso di ghiaccio della Groenlandia è il terreno di sfida della partita artica: “Sul fronte dell’atteggiamento cinese rispetto alla Groenlandia e all’avvicinamento del governo Inuit rispetto a Pechino per l’accesso alle risorse, a fronte di tanti elementi allarmanti gli Stati Uniti hanno deciso di cambiare atteggiamento e hanno usato la Danimarca come il braccio operativo di questo nuovo approccio diplomatico. Sfruttano la strana situazione danese rispetto alla Groenlandia (che ha un governo autogestito che dipende ancora da Copenaghen). Con gli Usa si è instaurato una sorta di patto, Washington ha aperto dopo anni un consolato a Nuuk, ad esempio”.
L’ossessione russa
Va poi considerato il ruolo della Russia, forse l’attore più attivo, anche in virtù della vicenda NordStream2: “Chiaro il suo piano di impegnare grandi risorse nell’Artico per l’estrazione e l’urbanizzazione di quelle terre. Per cui l’Artico è un po’ l’assicurazione sulla vita per la Russia, per risorse, basi militari e un’ossessione di Putin, che fa leva anche sulla mistica russa del Grande Nord, dell’uomo che sfida la natura in condizioni estreme. Sulla strada di questo sviluppo, si intende incrementare il transito di merci”. Ma, se finora i conti andavano fatti con il generale Inverno, ora c’è un terreno che appare meno solido di quanto ci si aspettasse.
E in gioco entra l’emergenza climatica: “Il permafrost mette a rischio ogni infrastruttura, ogni investimento: tutto deve tener conto del processo di scioglimento, che è la grande incognita anche per gli scienziati. Quello che è accaduto a Norilsk dove sono crollate queste cisterne di nafta, che hanno inquinato fiumi che sfociano nell’Artico, è una conseguenza di questo processo. Ci sono già migrazioni a causa dello scioglimento del permafrost… difficile immaginare installazione di ferrovie o altro. Putin però va avanti, ha installato una centrale nucleare galleggiante ancorata al porto di Pevek e destinata ad alimentare le miniere di oro e di rame su studi sovietici”.
I convitati di pietra Inuit
Un punto focale quello dello scioglimento del permafrost. E non solo per l’influenza sulla battaglia infrastrutturale che vede nell’Artico una sorta di corsa post-coloniale per accaparrarsi la parte migliore, da un punto di vista energetico e anche militare. In ballo, c’è la sopravvivenza di chi in queste terre ha posto radici profonde quanto il permafrost, e che nel gelo dei mari del Nord tra vita e sostentamento. Per loro, lo scioglimento del terreno significa il rischio concreto di scomparire: “Naturalmente continuano a essere disturbati nelle loro tradizioni e transumanze dalle nuove infrastrutture, che mettono a rischio la sopravvivenza di queste popolazioni. Così come nello Stretto di Bering, sia americano che russo, si confrontano con le conseguenze del cambiamento climatico, nell’impatto sulla regione, fra le più ricche dal punto di vista faunistico. Da questo punto di vista, tra uccelli, pinnipedi e cetacei, l’Artico è un santuario globale”.
“Però queste popolazioni, come la Groenlandia che ha un governo Inuit, non sono attrezzate a confrontarsi con le grandi potenze, ad esempio nel gestire il confronto tra Stati Uniti e Cina. Si possono definire quasi convitati di pietra a una tavola in cui si decide il futuro di quest’isola. L’Unione europea ha poca voce in capitolo. Le popolazioni indigene, per un verso o per l’altro sono quelle più colpite. Costrette ad abbandonare villaggi, tradizioni e vittime di un fenomeno di suicidi senza precedenti”.