L’incontro tra culture diverse e la valorizzazione delle differenze sono temi basilari in un mondo sempre più globalizzato e in questo particolare momento storico connotato da grandi sofferenze, quali ad esempio la pandemia da Covid – 19 e la guerra alle porte dell’Europa. In aggiunta alle politiche governative per l’integrazione e la lotta alle disuguaglianze, anche lo sport rappresenta un fattore di sviluppo sociale in contesti o territori svantaggiati, di inclusione sociale per rifugiati politici, minori stranieri non accompagnati o in famiglie ad alta conflittualità, diversamente abili.
Sport Senza Frontiere
Il perseguimento dell’inclusione dei ragazzi con fragilità provenienti da paesi e contesti particolarmente difficili, costituisce la missione fondativa di “Sport Senza Frontiere”, una Onlus che, nel 2009, attraverso un progetto pilota, ha accolto e fatto praticare sport a cinque bambini segnalati dalla Comunità di Sant’Egidio, i quali sono stati inseriti nei corsi di Pentatlhon Moderno dell’Atlhion Roma. Oggi l’associazione segue oltre 600 minori in otto città italiane. Interris.it, in merito a questa esperienza di accoglienza e sport, ha intervistato la direttrice della comunicazione di “Sport Senza Frontiere” Roberta de Fabritiis.
L’intervista
Come nasce e che obiettivi si pone “Sport Senza Frontiere”?
“Sport Senza Frontiere” nasce nel 2011, infatti lo scorso anno abbiamo compiuto dieci anni, con l’obiettivo di perseguire l’inclusione sociale attraverso un percorso educativo – sportivo, per tutti i bambini in Italia che vengono da situazioni difficili, famiglie con fragilità che vivono nelle periferie delle grandi città in situazione di povertà educativa. Noi, con il nostro progetto, cerchiamo di far praticare loro sport gratuitamente, ma non solo questo. È la presa in carico che è fondamentale. Il nostro modello di intervento che abbiamo messo a punto, fa sì che, il ragazzo, venga seguito a 360 gradi. Non sempre, infatti, regalare l’attività sportiva e dare questa possibilità che, non ci siamo inventati noi ma, moltissime associazioni sportive, lo fanno già e lo hanno sempre fatto, perché lo sport è inclusivo e generoso da sempre. Il problema è che, se non si seguono questi ragazzi e, ad esempio, non si controlla se frequentano e quanto frequentano, non si conoscono le famiglie, non si spiega alle stesse l’importanza di tale percorso, non li si accompagna e non si monitora l’andamento, il ragazzo magari va lì due o tre volte e poi il percorso si interrompe. Dobbiamo renderci conto che sono ragazzi che vengono da situazioni familiari difficili, alcuni vengono da case-famiglia, altri figli di immigrati, genitori monoreddito, famiglie monoparentali e, abbiamo capito che, la presa in carico, è fondamentale per il successo dell’attività. Quindi, noi prendiamo in carico i ragazzi per almeno due anni, la fascia d’età è quella delle elementari – medie, ossia la più vulnerabile, ed è lì che bisogna accompagnare i ragazzi. Dopo dieci anni di attività, ora sta succedendo che i ragazzi ci rimangono accanto e, di conseguenza, è nato il progetto della peer education in cui, gli ex beneficiari, diventano a loro volta tutor, cioè passano il testimone. Ciò è un concetto cattolico, salesiano e degli scout, che noi abbiamo ereditato in quanto, l’insegnamento tra pari, è una delle cose più efficaci al mondo. Gli ex beneficiari continuano il loro percorso insegnando ai più piccoli”.
Quali sono le attività che avete posto in essere, in questo frangente storico molto delicato, nei confronti dei ragazzi e delle ragazze provenienti dall’Ucraina?
“Sport Senza Frontiere” ha un programma Core che incentiva l’inclusione attraverso lo sport. Ciò avviene all’interno delle società sportive che, in tutta Italia, aderiscono a tale programma e accolgono i ragazzi. Questo è il programma Core. Poi abbiamo una serie di progetti speciali. Uno di questi è “Sport di prima accoglienza – Emergenza Ucraina”. Lo sport di prima accoglienza è un programma speciale che noi abbiamo già sperimentato, riportando un grande successo, con dei ragazzi rifugiati. All’inizio, tale progettualità, è nata con l’Unhcr, per offrire uno strumento di inclusione sociale veloce a tutti quei ragazzi che arrivavano con i barconi, dai corridoi umanitari e per coloro i quali stavano nei centri di accoglienza. Abbiamo capito che, lo sport, era un velocissimo veicolo per far sì che gli stessi entrassero nella società, potessero creare relazioni imparando nel contempo la lingua. Quindi, abbiamo dato vita a questo progetto con l’Unhcr che poi è rimasto. Ora, la stessa progettualità è usata per i rifugiati provenienti dell’Ucraina. Sono tutti bambini e gradualmente li abbiamo inseriti, seguendoli e organizzando loro le visite mediche, in percorsi sportivi. In seguito, li inseriamo nel progetto Joy, il quale è un’attività estiva, da giugno a settembre, che è un periodo molto critico per le famiglie che non possono permettersi di andare in vacanza o di pagare centri estivi o summer camp. Per tale motivo “Sport Senza Frontiere” ha creato Joy, che racchiude al suo interno centri estivi e laboratori educativi, di conseguenza stiamo inserendo nello stesso anche i bambini ucraini. In questo momento, ad esempio, mi trovo a Leonessa, dove da poco, grazie alla collaborazione con il comune, abbiamo inaugurato da poco “Joy Summer Camp” in cui ci sono già dei ragazzini ucraini e ne giungeranno altri nei prossimi giorni. Per quattro settimane saremo qui, accoglieremo bambini provenienti da varie realtà, tra cui quelli ucraini che abbiamo già inserito nelle città del progetto e li porteremo in vacanza con noi”.
Quali sono i vostri auspici per il futuro in materia di inclusione attraverso lo sport?
“Sport Senza Frontiere” lavora per creare una società dove lo sport sia un diritto e sia accessibile a tutti. Sarebbe molto bello, ad esempio, che diventasse un credit scolastico e fosse, nelle scuole di ogni ordine e grado, una disciplina che produce un credito. Chi fa attività agonistica, ad esempio, sarebbe bello che avesse un plus all’interno del percorso scolastico e non essere costretto a lasciare perché non riesce a studiare e nel contempo fare attività agonistica poiché spesso, in Italia, succede questo. Inoltre, lo sport, non dovrebbe essere un lusso, ma una possibilità educativa. Lo sport è un grande ascensore sociale, nel senso che, da qualche anno in Italia, si è un po’ persa questa flessibilità per la quale c’era la possibilità che, il figlio di una famiglia povera, facesse un percorso nella sua vita, uscendo da questa condizione di difficoltà, magari laureandosi e potendo aiutare la famiglia. In Italia ciò accade sempre meno. Questa possibilità di muoversi all’interno della società e uscire, grazie alle proprie capacità, da una situazione difficile di povertà è sempre meno possibile. Lo sport invece dà questa possibilità, perché mette a contatto mondi diversi, ti fa viaggiare, dà fiducia e forza e, di conseguenza, è una grande possibilità di crescita e di salvezza. Auspico quindi che, venga riconosciuto a livello istituzionale, l’importanza dello sport. È già stato fatto tanto, molti progressi sono stati messi in campo, le istituzioni se ne sono accorte, ma c’è ancora molta strada da fare”.