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L’impegno del centro di recupero per tartarughe marine: il racconto di Vincenzo Olivieri

Con l’arrivo dell’estate, anche le coste italiane vengono scelte dalle tartarughe marine per deporre le loro uova. Come fosse quasi un rituale di origini antichissime, infatti, questi animali tornano a nidificare nella spiaggia in cui sono nati. Il ciclo della vita che si ripete, meraviglioso e misterioso, come solo la natura poteva concepirlo. Chi ha la fortuna di poter assistere a questo prodigio si rende conto di far parte di qualcosa di più grande di lui, di inarrestabile… o quasi. Infatti, a causa dell’azione antropica, sono molti i pericoli in cui una tartaruga marina può incappare. Interris.it ne ha parlato con Vincenzo Olivieri, presidente del Centro Studi Cetacei e direttore del Centro di Recupero tartarughe marine Luigi Cagnolaro di Pescara.

L’intervista

Direttore, quali tartarughe abitano il Mar Mediterraneo?

“Ci sono tre specie di tartarughe: la più comune, la Caretta caretta, e la Chelonia mydas. Queste due specie si riproducono sulle nostre coste. Inoltre, nel Mar Mediterraneo è presenet la Dermochelys coriacea, una tartaruga di provenienza atlantica, molto grande – può raggiungere i due metri di lunghezza – ed è caratterizzata dal fatto di avere un carapace senza placche cornee, ma liscio e cuoioso”.

Qual è il loro stato di salute?

“Tutte le specie che abbiamo nominato, sono a rischio di estinzione. Sono sopravvissuti ai dinosauri, abbiamo conferma della presenza delle tartarughe da 250 milioni di anni, hanno resistito a cambiamenti climatici ben peggiori di quelli che stiamo affrontando ora. Hanno delle armi vincenti come il loro duro carapace che le protegge dai predatori, tornano a nidificare nel luogo dove sono nate e hanno la possibilità di fare molte uova. Queste caratteristiche che le hanno protette per milioni, ora sono messe in discussione da mutamenti che si sono verificati non solo nel Mediterraneo, ma in tutti i mari del mondo”.

A cosa si riferisce?

“Cambiamenti dovuti all’azione dell’uomo, sia diretta sia indiretta. Parliamo ad esempio degli effetti dell’inquinamento da plastica, tema di cui ci stiamo accorgendo ora come se ci fossimo svegliati dopo un lungo sonno. Moltissime tartarughe restano impigliate nella plastica: non riescono più ad immergersi, non si alimentano e spesso le ritroviamo in condizioni veramente pietose. Ciò che causa maggiori danni in termini numerici è la pesca a strascico, nell’Adriatico – usato dalle tartargughe nel periodo invernale come luogo di alimentazione – è un tema molto sentito. Tartarughe e pescatori si ritrovano a competere per le stesse risorse. E’ importante dire anche la sensibilità dei pescatori sul tema è notevolmente aumentata. Nella marineria di Pescara abbiamo moltissima collaborazione da parte dei pescatori: sono proprio loro che le portano al nostro centro dopo averle catturate accidentalmente. questo ci tengo a sottolinearlo, non vanno a pesca di tartarughe, capita accidentalmente”.

E sulla terra ferma, quali i problemi che devono affrontare le tartarughe?

“I cambiamenti climatici non le colpiscono solo in mare, ma anche a terra. Una volta che sono state deposte, le uova vengono ‘covate’ dal sole. C’è una differenziazione del sesso dei nascituri che dipende proprio dalle temperature: se sono alte nascono solo femmine, se sono basse nascono solo maschi. Ora con l’innalzamento delle temperature, si assiste a un notevole innalzamento di nascite di esemplari di sesso femminile e alla riduzione di quelli di sesso maschile. Ciò ha portato ad un notevole sbilanciamento nella popolazione di questi animale e aumentato il rischio estinzione”.

Che tipo di impatto avrebbe sulla biodiversità marina l’estinzione delle tartarughe?

“Molto grave. Tutte le specie che portiamo all’estinzione causano un grave danno alla biodiversità e alla salute del nostro ambiente. Tutti gli animali hanno un ruolo specifico nell’insieme che è l’ambiente. Faccio un esempio: l’aumento delle meduse a cui assistiamo, in larga parte è dovuto alla riduzione del numero di esemplari di tartarughe che, soprattutto in alcuni fasi della loro vita, si nutrono attivamente di meduse”.

Lei è direttore di un centro di recupero di tartarughe: come si svolge il vostro lavoro?

“Noi abbiamo due mission principali. La prima riguarda il recupero delle tartarughe che hanno avuto impatti con attività antropiche (impigliate nella plastica, intossicate da contaminanti acquatici, pescate accidentalmente) per riabilitarle e riabituarle alla vita selvatica. La seconda riguarda la didattica e la sensibilizzazione: abbiamo ogni anno 4.000-4.500 visitatori (soprattutto scolaresche), un modo di aumentare la sensibilità del cittadino verso la tutela delle specie acquatiche. Un aspetto fondamentale: possiamo aumentare le norme di tutela, ma se non cresce la sensibilità del cittadino nei confronti di questi animali, non riusciremo mai a tutelarli veramente”.

C’è un recupero che l’ha colpita particolarmente?

“Ogni tartaruga porta con sé una storia. Una che mi ha particolarmente scosso riguarda un esemplare che è rimasto nel nostro centro per circa un anno. Era stata pescata con un grosso amo, è stata sottoposta ad un’operazione importante, alla quale sono seguite terapie molto lunghe e costose. Siamo riusciti a riabilitarla completamente e l’abbiamo restituita al mare con una gran bella manifestazione. Cerchiamo di svolgere questa operazione con la presenza delle scolaresche e dell’aiuto della Capitaneria di porto. Dopo due giorni è finita in una rete da posta ed è stata trovata morta. Ormai per alcuni esemplari il mare è molto difficile da vivere”.

Quali emozioni si provano quando si rilascia una tartaruga in mare?

“Una grandissima gioia, è un momento importante. I nostri volontari danno un nome a questi animali e rimangono al loro fianco anche per 5-6 mesi. Alla fine, ci si affeziona, si potrebbe provare anche un po’ di dispiacere, ma il nostro obiettivo finale è quello di restituirlo al mare, tanto che il nostro motto è ‘A non rivederci mai più'”.

Manuela Petrini

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