“Dopo aver saputo che ero negativizzata, la prima cosa che ho fatto è stata prendere la macchina e andare sotto la casa dove mio marito stava passando le due settimane di isolamento dopo 14 giorni di ospedale. Lui affacciato alla finestra, io in cortile con i guanti e la mascherina, ma dopo quaranta giorni, finalmente, ci siamo visti. E’ stato un momento che non dimenticherò mai. Abbiamo calcolato che questa è stata la separazione più lunga che abbiamo vissuto da quando ci siamo sposati, quasi 28 anni. La cosa più terribile di questo virus è l’isolamento che crea attorno alle persone”. A raccontare la sua esperienza è Rosanna Montani, membro della Comunità Papa Giovanni XXIII che vive a Codogno (Lodi), città dove è esploso il primo focolaio di coronavirus e dove è stato individuato il cosiddetto paziente 1.
Il 4 marzo, spartiacque della loro vita
Rosanna e suo marito, entrambi guariti dal Covid-19, hanno vissuto momenti di smarrimento dopo la chiusura del 21 febbraio a causa delle informazioni poco chiare, la non consapevolezza di cosa stesse accadendo. Dopo oltre due settimane dall’istituzione della zona rossa nella loro città, pensavano che il peggio fosse passato, fino alla mattina del 4 marzo. “Mio marito si è svegliato e non riusciva a respirare, io sono svenuta. Abbiamo contattato il nostro medico di base che ci ha immediatamente mandato l’ambulanza a casa – spiega -. Siamo stati portati in un ospedale in provincia Pavia perché nella nostra zona non c’era più posto. Ci hanno fatto molti esami, tra cui una radiografia al torace e il tampone. Il pomeriggio ci hanno comunicato che eravamo positivi al coronavirus“. Inizia così il loro calvario, la lotta contro un nemico invisibile e insidioso. Mentre il marito viene ricoverato in ospedale, Rosanna viene rimandata a casa e affidata alle cure e alla sorveglianza del suo medico di base.
La paura e l’isolamento
“Da quello che io definivo un film ‘fanta-horror’, sembrava di essere in un mondo a parte, siamo passati alla consapevolezza di quello che voleva dire essere malati di coronavirus, di cosa comportava – racconta -. Ho passato 14 giorni relegata in una camera con bagno, non potevo uscire, nel resto della casa viveva mia figlia. Per lei è stato un banco di prova molto duro. Mi passava il cibo attraverso la porta, abbiamo dovuto separare la spazzatura, adottare delle accortezze particolari per il lavaggio dei miei vestiti”. Una malattia lunga, che coinvolge a 360 gradi l’organismo. Il Covid-19 ha colpito Rosanna agli occhi, per cui non riusciva a vedere bene, allo stomaco e le provocava mal di testa importanti, inoltre, non riusciva a respirare bene. “Ti mette al tappeto e io sono una di quelli che non ha avuto bisogno del ricovero e di essere intubata”.
Il dramma nel dramma
Rosanna lancia anche una denuncia nei confronti della struttura organizzativa. “Chi come me ha vissuto l’isolamento in casa ha provato l’abbandono, nessuno ti segue. Io devo ringraziare il mio medico di base che è venuto a visitarmi. A sua disposizione non aveva che pochi camici, non le era stato fornito neanche un saturimetro – racconta -. Sono stata molto male, solo a mano a mano che mi avviavo alla guarigione ho realizzato che come me, molte persone non ottenevano ciò che era giusto”. Terminati i 14 giorni di quarantena, Rosanna si contra con un nuovo problema: fare il tampone per confermare la negatività al Covid-19. “E’ stato un percorso difficilissimo per ottenere i tamponi per verificare se ero guarita. Ho tempestato di telefonate tutti i numeri che mi venivano forniti. Alcuni squillavano a vuoto, ad altri si attivava un messaggio registrato che spiegava che il sistema era sovraccarico”.
La denuncia
La voglia di giustizia, non solo per lei ma anche per i più fragili, vissuta nello spirito della vocazione della Comunità Papa Giovanni XXIII, la spinge ad uscire allo scoperto e a parlare con la stampa locale per denunciare la situazione. “I due tamponi mi sono stati fatti quasi due settimane dopo la fine della quarantena. Non è giusto, ancora adesso ci sono delle persone che non stanno ottenendo il dovuto – ribadisce – E’ grave perché parliamo della salute che è un diritto garantito dalla Costituzione. E, nella nostra città, che fa parte della zona rossa, dovrebbe esserci maggiore attenzione. Ci sono stati molti morti, una chiesa è stata trasformata in camera mortuaria perché non c’era posto per tutte le bare. Sono immagini che ti segnano profondamente”.
Una Codogno che non si piega
Nonostante la profonda ferita che il virus ha inferto a Codogno, la città “ha risposto in modo dignitoso, ha affrontato con coraggio il coranavirus, ha reagito e non si è piegata – spiega -. Oggi siamo in una fase in cui c’è anche voglia di riprendere la vita normale, ma ci sono anche tante piccole imprese e artigiani che non sanno cosa sarà del loro futuro. Iniziano ad esserci manifestazioni di disagio, sofferenza e preoccupazione. Segnali che lo Stato deve tenere presenti“.