Appiattimento sulla pandemia
“L’informazione si è molto appiattita sulla pandemia. Per causa maggiore ma non solo. Tralasciando spesso la narrazione di tanti altri fatti rilevanti. Fatti che accadono spesso nel ‘resto del mondo‘ quello che non fa cronaca”, evidenzia a Interris.it Catia Caramelli. E aggiunge: “L’ informazione, specie radiotelevisiva, si affanna da mesi a rincorrere le tante notizie sulla pandemia. E i tanti proclami. E a volte le presunte notizie si smentiscono tra loro. Non si fa in tempo a far arrivare un messaggio che un altro è pronto a cancellarlo. Si rischia spesso di far torto alla verità. Anche se quasi sempre in buona fede. E’ una situazione del tutto inedita anche per i giornalisti contemporanei quella che stiamo vivendo”.
Questione di linguaggio
Sostiene Catia Caramelli: “In parte si fa ricorso ad un linguaggio bellico, in parte ad un ‘medichese’. Ci si improvvisa tutti esperti, anche i giornalisti. La comunicazione rischia di essere disfunzionale. Non a caso termini come ‘bollettino‘ e ‘stato di emergenza’ rimandano a una comunicazione di stampo militare”. E la pandemia sta provocando una serie di conseguenze sulla psiche così profonde da aver spinto l’Organizzazione mondiale per la sanità a lanciare l’allarme sulla necessità di tutelare la salute mentale degli individui. L’Oms ha anche diramato un vademecum su come affrontare il tema e quali precauzioni adottare distinguendo varie categorie della popolazione. Anziani, personale sanitario, parenti delle vittime, persone contagiate, bambini. Puntualizza Giuliano Amato, giudice della Corte costituzionale, ex presidente dell’Istituto della Enciclopedia Italiana: “L’esperienza che stiamo vivendo e il futuro che vivremo dopo di essa si annodano attorno ad alcune parole. Sono parole non nuove, che tuttavia in taluni casi hanno assunto significati ai quali la stragrande maggioranza di noi mai in precedenza avrebbe pensato. In altri hanno fotografato realtà e scenari che prima non conoscevamo”. La Treccani, in collaborazione con l’Istituto superiore di sanità, ha realizzato un elenco dei 100 vocaboli più usati durante l’epidemia di Covid-19.
Contagio
“Prendiamo la prima e più basilare in tempi di Coronavirus, la parola ‘contagio’– osserva Mato-. Certo, il significato era ed è rimasto la trasmissione di una malattia infettiva da una persona malata a una sana. Ma era un altro il contagio che le nostre generazioni conoscevano, quello del morbillo fra bambini, o al massimo del raffreddore e dell’influenza fra adulti. Fenomeni non gravi e comunque collocati sempre in segmenti limitati di una società, la cui vita prosegue in modi normali. Certo sapevamo che c’era stata la spagnola, ma cento anni fa. Così come c’era stata la peste secoli prima; e sapevamo di Ebola, ma lontano da noi nella meno fortunata e sanitariamente meno sicura Africa centrale. Ed ecco che ora contagio prende ad esprimere un rischio, addirittura letale, che ogni altro rappresenta per ciascuno di noi”.
Significati ritrovati
È questo, precisa il professor Amato, il significato che avevamo perso e che ha sconvolto non solo le nostre vite esteriori. Ma anche i nostri sentimenti e i nostri atteggiamenti verso il prossimo. Rendendo ciascuno il potenziale nemico di ogni altro“. Senza questo (ritrovato) significato della parola “contagio”, secondo il professor Amato, “non spiegheremmo la facilità con la quale ci siamo impadroniti di un altro significato rinnovato, quello della parola ‘tracciamento’. Una parola prima poco usata nel linguaggio corrente, perché serviva ad indicare la ricostruzione di un percorso attraverso le tracce. O per i progettisti, la topografia di un’opera progettata“.