Creare un contatto con il mondo dell’adolescenza presuppone la conoscenza di quel mondo e delle sue problematiche. Un approccio non sempre semplice, anzi. C’è un contrasto da mettere in conto, quello tipico generato dalla ribellione e dalla voglia di vita proprie di chi sperimenta il passaggio dall’infanzia all’età adulta. Ma anche da quell’implicita richiesta d’ascolto che, spesso, si cela dietro atteggiamenti apparentemente autorevoli. Perché, spesso, accade che l’adolescente sia un’isola, un potenziale inespresso, chiuso in sé stesso e nelle sue fragilità, magari nei suoi problemi non espressi.
Ed è in questa sottile zona d’ombra che entra in scena, letteralmente, il progetto de “I Fuori gioco”, progetto didattico cinematografico realizzato dal Centro Studi Artistici di Acireale diventato un vero e proprio fenomeno, con sbarco nientemeno che sulla piattaforma Amazon Prime Video. Con un messaggio tanto genuino quanto immediato, grazie alla disamina del tempo presente messa in video dai protagonisti: “La recitazione – ha raccontato a Interris.it il regista, Diego Cannavò – può essere terapeutica”.
Diego, chi sono “i Fuori gioco”?
“Come produzione ci chiamiamo ‘Centro Studi Artistici’, facciamo spettacoli teatrali per ragazzi, andiamo nelle scuole e operiamo per le stagioni teatrali ad Acireale, in Sicilia. Abbiamo poi dei corsi di recitazione per bambini e ragazzi. Nel 2020, con l’arrivo della pandemia, è stato chiuso il settore teatrale e le prime riaperture effettuate sono state inerenti alla produzione cinematografica. Abbiamo pensato quindi di creare un film che, per i ragazzi, sarebbe stato il ‘saggio’ di fine anno. L’intento era di proiettarlo al cinema solo per noi, senza ulteriori ambizioni”.
Come è stato sviluppato?
“Senza troupe né produzione ma facendo tutto ‘in casa, grazie all’aiuto di attori professionisti come Carmelo Cannavò e Santo Pennisi, abbiamo realizzato un progetto che vede come protagonisti i ragazzi. E, dal momento che erano più di venti, abbiamo scritto questa storia che parla proprio dei problemi adolescenziali, dell’emarginazione, dei ragazzi che non si sentono incentivati dagli adulti. Accade, infatti, che ci siano dei giovani che non riescano a esprimersi, chiudendosi in sé stessi e diventando come delle isole, chiuso nel proprio mondo. Nel film, queste isole iniziano a capire l’importanza del gruppo proprio grazie alla recitazione, iniziando a capire anche le difficoltà della vita, dal lockdown a temi come la pedofilia. E, in questo modo, capiranno l’importanza di parlare e affrontare tutto insieme”.
E alla fine il progetto è cresciuto, ben oltre le aspettative “didattiche” iniziali…
“Il riscontro del pubblico è stato molto positivo, il cinema stesso ci ha chiesto di riproporlo in sala. Finché non abbiamo avuto l’idea di presentarlo ad alcuni festival cinematografici. La forza del progetto è nel messaggio di speranza, che va oltre l’imperfezione tecnica. Per questo ci siamo trovati con un prodotto che ha funzionato sempre di più, arrivando persino alla piattaforma Amazon Prime Video”.
Un successo figlio, probabilmente, della facilità di immedesimazione nelle vicissitudini dei personaggi?
“Assolutamente. Nel film troviamo il bambino di 9-10 anni, il ragazzo di 25 e chiaramente anche gli adulti. Ci sono diversi personaggi, ognuno con il suo disagio, nei quali è facile rispecchiarsi. Sicuramente questo aiuta molto il coinvolgimento del pubblico”.
Anche per la vicinanza, sia temporale che a livello di cronaca, di alcuni temi trattati. Penso al lockdown ma anche ai rischi online…
“Sicuramente l’avvento dei social ha aiutato. Nel lockdown abbiamo avuto la possibilità di tenerci vicino. D’altro canto, questo dà ad alcune persone la possibilità di nascondersi dietro ai profili, adescando chi è più debole o chi cerca notorietà. Sicuramente, chi guarda il film può capire quanti pericoli possono esserci dietro l’angolo. E che, soprattutto, è importante parlarne. Spesso passa il messaggio che chi parla è debole ma è il contrario: chi lo fa ha il coraggio di esprimere un disagio”.
Come hanno vissuto, i ragazzi, il passaggio dal teatro al cinema?
“Quando si ha una macchina da presa, bisogna rimanere immobili. Dovevano imparare a dare tutto tramite la parola, senza utilizzare troppo il corpo. Però io stesso, nelle riprese, per catturare la realtà dei ragazzi ho sempre cercato di lasciarli molto liberi. Io ero come uno spettatore invisibile con la macchina da presa, che giravo tra di loro mentre erano liberi di potersi esprimere”.
Che poi è l’essenza del cinema: la naturalezza che fa dimenticare la finzione…
“Esatto. Non cercavo cose troppo meccaniche. E forse è questo un altro punto di forza. Con questa naturalezza, i personaggi diventano ancora più reali. Ci si dimentica di star guardando il film ma sembra come se si fosse affacciati a una finestra”.
Abbiamo parlato dell’esportazione del progetto nelle scuole: qual è il riscontro tra gli studenti?
“Ogni volta che abbiamo proiettato il film per le scuole, abbiamo avuto modo di vedere come gli studenti restino affascinati da questa storia, ponendo domande anche molto interessanti. Abbiamo l’opportunità di parlare di grossi temi davanti a una platea che ha già, in qualche modo, la nostra fiducia. E possono capire come la recitazione possa aiutare. Molti ragazzi vengono da noi perché hanno difficoltà a esprimersi. Il teatro è un momento di comunione, in cui si acquisisce una consapevolezza che porta a ottenere risultati migliori anche fuori. Noi pensiamo che il teatro sia terapeutico per i ragazzi e questo film ce ne dà la conferma. Aiutare a riscoprire sé stessi tramite il teatro è sempre stata la nostra mission”.