Il politologo Lorenzo Castellani insegna Storia delle istituzioni politiche all’università Luiss di Roma, fa parte del comitato editoriale di “Liberilibri” e ha appena pubblicato “L’ingranaggio del potere”. In precedenza aveva suscitato grande interesse “Il potere vuoto”, saggio sullo svuotamento delle democrazie sotto assedio del tecnopopulismo, cioè della tecnocrazia e del populismo.
Tre livelli
Assonime (associazione fra le società italiane per azioni) ha inviato a governo e istituzioni un progetto per non perdere l’occasione unica delle risorse del Recovery Fund. E mira a stabilire tre livelli: politico, di coordinamento gestionale, operativo. Ciò per evitare conflitti, veti reciproci e lentezze come. Il presidente di Assonime, Innocenzo Cipolletta chiede di creare una delega specifica, da affidare al ministero degli Affari Ue, per il Recovery fund. E di raccogliere la maggiore convergenza possibile fra maggioranza e opposizione in Parlamento. “L’obiettivo è dare vita, con una legge urgente, un’architettura istituzionale centrata sul presidente del Consiglio senza creare nuove strutture ma basandosi sulle esistenti”, afferma Cipolletta. Una proposta tra tante per uscire dallo stallo istituzionale.
Il gioco del potere secondo Castellani (Luiss)
“Il grande gioco del potere sta cambiando e la democrazia liberale vive una crisi dai due volti- spiega il professor Castellani-. Da un lato l’avanzare del populismo, la fine dei partiti, il leaderismo, l’influenza del potere giudiziario, costituiscono il nuovo codice genetico della sovranità statale. Dall’altro sul tavolo della politica internazionale sono evidentissimi i fallimenti dell’esportazione della democrazia, le ipocrisie della tutela dei diritti umani. Un viaggio dentro i meccanismi della democrazia liberale non può che essere un viaggio nella crisi dell’Occidente. Nello sgretolamento della politica. Nella debolezza delle democrazie occidentali di fronte ai grandi cambiamenti. Imposti dall’avvento della globalizzazione, delle nuove tecnologie, delle sfide geopolitiche”.
Viviamo davvero in regimi democratici? O ritiene che il voto popolare sia oramai ridotto a poco più di una finzione per legittimare decisioni prese da poteri non rappresentativi?
“Nell’ultimo secolo, all’aristocrazia del denaro (che già aveva sostituito quella del sangue) si è aggiunta l’aristocrazia della conoscenza specialistica. La tecnica e la politica si sono sempre più intersecate, il principio di competenza si è sovrapposto al principio democratico, erodendone spazi e responsabilità. La storia intellettuale e istituzionale della tecnocrazia è rimasta però sotto traccia, quasi inesplorata, come ogni arcana imperii che si rispetti. Oggi però si aprono crepe profonde nella legittimità della grande macchina burocratica, nazionale e sovranazionale. L’ingranaggio del potere è alla resa dei conti, i tempi sono maturi per indagare il passato e rovesciare la maschera della tecnodemocrazia. Nei prossimi decenni la gabbia d’acciaio tecnocratica potrebbe crollare o, paradossalmente, rafforzarsi ancora di più”.Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella ha più volte chiesto maggiore collaborazione fra governo e presidenti di Regioni per coordinare le strategia anti-Covid. Perché ciò non avviene?
“Perché ci sono troppi interessi divergenti tra governo e regioni. Le regioni non vogliono assumersi la responsabilità di lockdown locali; il governo allo stesso modo ha timore di assumersi la responsabilità di una chiusura nazionale. Il risultato sono una serie di misure palliative che rischiano di essere inconsistenti. Senza contare il dramma economico, sociale ed occupazionale in cui rischiamo di incorrere nei prossimi mesi. Le indecisioni della politica e le inefficienze dell’amministrazione sul piano sanitario rischiano di essere molto costose”.
A cosa si riferisce?
“Il Quirinale ha anche indicato la strada per una collaborazione tra maggioranza ed opposizione. Il governo ha tirato fuori formule inusuali come la proposta di formare una cabina di regia, ma in una democrazia liberale che si rispetti il luogo della cooperazione e della mediazione deve restare il Parlamento. È li che maggioranza ed opposizione devono reciprocamente aprirsi poiché questo aiuterebbe anche a gestire il rapporto con Regioni per la maggioranza governate dal centrodestra”.Quando la pandemia sarà superata si riuscirà secondo lei a mettere mano a una riforma costituzione per definire meglio le attribuzioni di competenze tra il centro e la periferia?
“È molto difficile perché la politica italiana è sempre molto frammentata e litigiosa, ma è quello che si dovrebbe fare. Servirebbero dei movimenti civici per la riforma costituzionale al fine di mettere pressione sulla classe politica, ma quello istituzionale è un tema complesso che difficilmente riesce a coinvolgere un gran numero di cittadini. Non sarà facile, ma sicuramente i nuovi politici, quelli più giovani ed in ascesa, saranno anche misurati su questo. L’incapacità di riformarsi ha mangiato la classe politica della prima e della seconda repubblica. C’è il rischio che succeda ancora se la classe politica continuerà solo ad amministrare il potere senza riformarlo”.Papa Francesco ha evidenziato come la pandemia abbia fatto esplodere le contraddizioni di una economia malata. Ciò sembra valere anche per la politica italiana. Cosa ci dice la gestione di questa emergenza sanitaria sull’inefficace e conflittuale rapporto tra Stato e Regioni?
“Stato e Regioni, a causa di un federalismo lasciato a metà e di un centralismo debole, hanno agito e continuano ad agire in maniera del tutto scoordinata durante questa pandemia. È un meccanismo dannoso per il paese perché moltiplica eccessivamente i poteri ed i livelli decisionali, accresce l’irresponsabilità diffusa della classe politica, accresce le differenze tra territori e veicola ai cittadini la sensazione di vivere in un paese in cui ogni istituzione va per conto suo. Quanto all’economia c’è bisogno di uscire dal binomio Stato-capitalismo”. Può farci un esempio?
Abbiamo uno Stato burocratico, iper-legalista, poco coordinato ed efficiente; un capitalismo clientelare che troppo spesso privatizza gli utili e socializza le perdite. C’è bisogno della società, della comunità, di enti no profit e di solidarietà che aiutino le famiglie ma che producano anche servizi pubblici quando Stato e mercato non riescono a farlo. Il mondo delle associazioni e delle fondazioni deve essere maggiormente valorizzato dalla politica. Non dobbiamo dimenticare il principio di sussidiarietà che riguarda sia la centralità degli enti locali nelle politiche pubbliche che, soprattutto, quello del terzo settore nei territori”.A cosa è dovuta la sempre più evidente assenza di una catena di comando chiara e salda tra il centro e la periferia?
“La riforma d’inizio secolo del Titolo V ha lasciato troppi nodi irrisolti. Ci sono troppe competenze condivise tra Stato e regioni, un contenzioso legale eccessivo tra governo e periferia. Inoltre, le regioni sono sovrane sulla sanità pubblica ma, al tempo stesso, non hanno capacità di imposizione fiscale, cioè di chiedere tasse ai cittadini. Sono prevalentemente enti di spesa, caratteristica che tende ad accrescere l’irresponsabilità degli amministratori regionali perché sono poco controllabili dagli elettori e dal governo centrale”. Cosa manca?
“Il paese dovrebbe avere un vero federalismo, con una suddivisione di competenze chiara e razionalizzata e con un carico fiscale ripartito meglio tra centro e territori. Il principio guida dovrebbe restare proprio quello della sussidiarietà. Decidono i livelli di governo più prossimi ai cittadini fino a quando le competenze richieste e l’ampiezza degli interventi non siano tali da coinvolgere il governo centrale. Durante una pandemia le direttive sul sistema sanitario dovrebbe darle il governo centrale, con una clausola di supremazia proprio per la gestione delle emergenze, così come le grandi infrastrutture dovrebbero essere gestite dal centro. Tutto il resto, che può essere collocato entro i confini comunali o regionali, può rientrare senza problemi nelle attribuzioni del governo locale”.