Sott: L’isolamento, come condotta di vita, poggia su un pericoloso crinale: l’illusione della chiave del benessere si scontra con la realtà individualista e divisiva
“Honjok” è un termine coreano che indica la cosiddetta “tribù di una sola persona”, costituita da chi desidera vivere da solo, in tutti gli ambiti quotidiani, al fine di uscire, recarsi al cinema, viaggiare, rigorosamente in solitario.
Si tratta di uno stile di vita che si realizza sia giornalmente sia nella programmazione futura.
Se il rimanere soli, a volte, può costituire un’occasione per riflettere, concentrarsi, riposare e meditare, l’esaltazione e la riduzione di tutta la vita a tale profilo ascetico ed eremitico, possono rappresentare un pericolo. La persona, infatti, specie se giovane, rischia di sprofondare nell’isolamento, nel ritiro (e rifiuto) sociale: l’hikikomori sperimentato dai “cugini” giapponesi, a poche migliaia di chilometri di distanza, con tutte le conseguenze che ne derivano.
La scelta, individualista in tutti i sensi, espone a sviluppare una libertà estrema, anarchica, incontrollata.
Rimanere forzatamente da soli, senza, peraltro, motivazioni spirituali e religiose, non consente di vivere il prossimo, di toccarlo, di condividerlo e aiutarlo. Si nega l’alterità.
La spinta dall’isolamento all’individualismo è dietro l’angolo: vi è il rischio di agire solo in funzione della soddisfazione e del piacere personali, in una latente e costante deriva verso l’ego. L’honjok, per essere una tendenza positiva, riflessiva, arricchente, deve evitare tale pericoloso scarroccio.
Si tratta di una tendenza “laica”, senza le implicazioni spirituali e religiose che hanno attraversato i millenni, tra Oriente e Occidente, in cui gli eremiti cristiani, induisti e buddisti hanno cercato, attraverso privazioni di vario genere, la solitudine come condizione migliore per meditare, pregare e avvicinarsi al divino.
L’idea, quindi, non è nuova poiché sia le culture orientali (cinese e indiane) sia quelle europee (greche e romane) hanno, per secoli, tramandato l’esperienza solitaria, generalmente per motivi religiosi.
Un aspetto precipuo della “soluzione coreana” può essere letto in chiave laica, in una forma di solitudine esente da motivazioni di carattere spirituale, volta a ottenere un miglior approccio alla società contemporanea; in particolare per le donne che la considerano come un’opportunità di indipendenza da una società considerata chiusa e autoritaria.
Francie Healey (consulente clinica) e Crystal Tai (giornalista, scrittrice) sono le autrici del volume “Honjok” (sottotitolo “L’arte di vivere da soli”), pubblicato da “Giunti” nel settembre 2020. Parte dell’estratto, sottolineando gli aspetti costruttivi della scelta solitaria, recita “Analizza la tendenza e spiega la differenza tra stare da soli e sentirsi soli, presenta strategie pratiche per chi ama viaggiare o uscire solo – cenare fuori, visitare una mostra, organizzare una vacanza – ed esamina come i momenti di solitudine possano trasformarsi in opportunità per scoprirsi, cementare l’autostima”.
I fautori di questa scelta di vita evidenziano un altro aspetto positivo: calarsi nella solitudine per conoscerla, conviverci e non averne timore; una sorta di addestramento per esorcizzarla. A supporto di tale tesi, spesso si ripete il principio che l’honjok rappresenti lo stare da soli senza il sentirsi soli.
In questo senso, è fondamentale non perdere la fiducia nel prossimo e non considerarlo come nemico, come un qualcuno pronto ad attaccare.
Il 15 febbraio scorso, “il Bollettino” ha pubblicato, al link https://www.ilbollettino.eu/2024/02/15/single/, alcuni numeri riguardanti i single. Fra i dati, si legge “Quanti sono i single in Italia? 8 milioni e 400mila, ovvero più di un residente su 7. […] 1. Nel 62,9% dei casi per loro la solitudine è una scelta obbligata da diversi fattori. 2. Il 58,9% del totale è convinto che la singletudine non dia più opportunità che limitazioni. 3. Tra coloro che sono del parere contrario appaiono i giovani dai 18 ai 24 anni. […] Il 18,7% dei single afferma di essere giudicato incompleto, o meglio, non realizzato perché senza partner. Il 9,9% dice di apparire all’esterno come restio ad assumersi delle responsabilità. Oltre 1/5 riceve di continuo commenti sulla ‘fortuna’ della propria condizione innanzitutto per l’indipendenza. […] Il 24,1% delle persone sole lamenta inclementi pregiudizi tra i quali l’essere additati come soggetti dal carattere difficile”.
Il pregiudizio è, purtroppo, legato alla necessità di chi si sente in dovere di giudicare chiunque. Costituisce un aspetto ambivalente nella scelta del potenziale solitario: rinunciare a rimaner soli per evitare classificazioni e stigma sociale oppure proseguire, imperterriti, nella propria decisione?
La tendenza, diffusasi in questi ultimi anni, nella Corea del Sud, appare, spesso, celebrata come rivoluzionaria, una scoperta, una soluzione nuova al mondo contemporaneo, una ricetta mai percepita da cui attendersi le classiche soluzioni all’infelicità o ai “10 metodi per ritrovare se stessi…”. Il Paese favorisce e “tutela” questo atteggiamento, a esempio a livello alimentare, con porzioni monodose nei supermercati e con una maggiore discrezione nei ristoranti, evitando di porre gli avventori solitari (in crescendo) all’osservazione critica degli altri.
Il concetto in questione, dell’honjok, è molto delicato e necessita di un bilanciamento, affinché, in considerazione del giusto spazio per sé, questo culto dell’IO non si traduca in una negazione della socialità e del prossimo.
Nell’accezione positiva, l’individuo è consapevole del mondo attorno e non lo disprezza, non mostra risentimento o rancore, preferisce tenersi in disparte e riflettere.
La globalizzazione e l’omologazione diffusa, conducono le persone al conformismo e alla perdita delle peculiarità individuali, a un pensiero acritico, mutuato e accettato. In questo senso, considerando l’honjok come un’occasione di riflessione personale, lo stesso può essere un valido mezzo per sottrarsi all’uniformità, riscoprendo le proprie attitudini e le proprie caratteristiche.
Nell’accezione negativa, l’idea è che si possa fare a meno dell’altro, del prossimo. Ci si salva da soli…
Nel Messaggio dell’11 febbraio 2020, per la XXV Giornata Mondiale della Gioventù, Papa Francesco ricordò “C’è chi vivacchia nella superficialità, credendosi vivo mentre dentro è morto. Ci si può ritrovare a vent’anni a trascinare una vita verso il basso, non all’altezza della propria dignità. Tutto si riduce a un ‘lasciarsi vivere’ cercando qualche gratificazione: un po’ di divertimento, qualche briciola di attenzione e di affetto da parte degli altri… […] A lungo andare comparirà inevitabilmente un sordo malessere, un’apatia, una noia di vivere, via via sempre più angosciante. […] Cari giovani, non lasciatevi rubare questa sensibilità! Possiate sempre ascoltare il gemito di chi soffre; lasciarvi commuovere da coloro che piangono e muoiono nel mondo di oggi. ‘Certe realtà della vita si vedono soltanto con gli occhi puliti dalle lacrime’ […] Oggi spesso c’è ‘connessione’ ma non comunicazione”.
La felicità è nella condivisione e nella vita in comunione; viverla da soli significa schermarla, tentare di portarla al sicuro e alle proprie condizioni. La felicità non è un sinonimo di “piacere” bensì di costruzione, con il prossimo, del benessere reciproco.
La condizione in cui ci si sente da soli anche nel mezzo di una folla, non dovrebbe condurre a un arrendevole isolamento bensì a capire le cause del perché le persone possano diventare degli automi, insensibili a ciò che è intorno. Rifuggire il problema dell’alienazione, invece, lo certifica e lo amplifica.
Occorre prestare attenzione alle tentazioni, di isolamento, di una società in cui ci si muove sempre meno da casa, poiché si ottiene tutto tramite un ordine on line, si lavora in camera senza dover incontrare nessuno e si può attingere a un’offerta televisiva infinita. La tecnologia spinge ad avere comodità in casa senza cercarle altrove e, quindi, crea solitudine, isolando dalle situazioni di socialità e convivialità (di cui i social sono solo un surrogato). Il rischio è che alimentare questi stili di vita, già individualistici, possa condurre a una società sempre più molecolare.
Tale tendenza si rapporta con le vive tentazioni dei social e della messaggistica. L’isolamento che si ripercuote, volontariamente e in pieno anche a livello del web, concede qualche pausa o nessuna eccezione alla regola?
L’intelligenza si sviluppa grazie al linguaggio e questo può avvenire solo in presenza di altri “simili”, con i quali stabilire relazioni, confronti, discussioni.
Perdere gli stimoli del prossimo significa interrompere una crescita intellettiva nonché sviluppare patologie e disturbi mentali, di demenza o di incapacità a relazionarsi.
Non è richiesta dipendenza dall’altro né, all’estremo opposto, un’esclusione a priori. L’equilibrio è nel confrontarsi e collaborare col prossimo, rimanendo lucidi nel pensiero e conservando la propria identità, raccordando il “lavoro” individuale con quello collettivo.
In un mondo che, per contrastare i conflitti, le contrapposizioni e le divisioni, cerca di sollevare, a fatica, il tema dell’inclusività, l’isolamento, per quanto cagionato da buone cause, non sembra l’ingrediente ideale, anzi.
La libertà e l’indipendenza dovrebbero nascere dall’accettare e frequentare il prossimo, arricchendosi, spiritualmente, del lavoro che l’altro effettua per migliorare la vita di ognuno. Delegare felicità e libertà solo alla condizione di esser lasciati soli, in un individualismo rafforzato, conduce a obiettivi effimeri, colti nella transitorietà ma estranei al progetto divino e alla giusta alterità.