“La pandemia ha cambiato il nostro modo di fare assistenza”, afferma a Interris.it lo psicoterapeuta Salvatore Grammatico, direttore dei centri di assistenza della Caritas di Roma a Villa Glori per malati di Aids e di Alzheimer.
Tre decenni di Villa Glori
A Villa Glori sono accolte, assistite e curate persone affette da Hiv, Aids e Alzheimer. Nel 1988 l’allora direttore della Caritas diocesana di Roma, don Luigi Di Liegro decise di aprire una casa nel quartiere romano Parioli. L’obiettivo è accompagnare le tante persone che morivano sole per strada. Per don Tonino Bello Villa Glori è “un luogo bellissimo che sfida tante paure, preoccupazioni e luoghi comuni”. Nelle villette ci sono stanze doppie e singole per i malati e laboratori di musicoterapia, arteterapia e danzaterapia.
Villa Glori è un luogo storico dell’assistenza a Roma. Cosa è cambiato con la pandemia?
“Direi che con la pandemia non è cambiato il modo di assistere gli utenti. Ovviamente ci siamo adeguati scrupolosamente alle indicazioni che abbiamo ricevuto attraverso le varie circolari emesse. A cominciare dalla completa chiusura del centro a tutti i soggetti esterni. Ciò per tutelare al meglio la loro salute e anche quella di tutto il personale che se ne occupa. Data la forzata ‘clausura’ abbiamo messo in piedi delle attività interne. Così gli ospiti hanno potuto impiegare il tempo in modo piacevole, costruttivo e interessante”.
“Abbiamo realizzato un percorso a tappe nel periodo della Quaresima, coniugando riflessione ed espressione artistica. Sono stati realizzati dei grandi pannelli per rappresentare le varie tappe prima della Pasqua. Attualmente stiamo portando avanti un progetto di orto biologico al quale partecipano persone di tutte e tre le nostre case”.
“Questa emergenza generale ha toccato tutti noi, operatori e residenti. Inizialmente per noi operatori era forte la preoccupazione di poter essere veicolo di accesso del virus nella struttura. La consapevolezza di una comunità composta da persone fragili con pluripatologie ci ha portato ad essere scrupolosi e attenti nel rispettare tutte le procedure. Nel bloccare gli accessi a volontari e familiari nel periodo del lockdown e solo successivamente consentire l’accesso alle sole persone autorizzate. Secondo le procedure previste dalle ordinanze regionali”.
“Siamo andati avanti con le parziale riapertura di alcune attività. Ci siamo preoccupati di educare i nostri residenti. Abbiamo insegnato a gestire l’uso delle mascherine, l’igiene delle mani, il distanziamento. Ciò per valutare il rischio di tutte le diverse azioni messe in atto. Con l’obiettivo della doppia responsabilità. Una responsabilità personale. Ognuno è responsabile nel prendersi cura di se stesso. Evitando, quindi, comportamenti che possano metterlo a rischi di contagio. E una responsabilità comunitaria. Essendo persone che vivono in una comunità, hanno la responsabilità delle persone con cui abitano. Una attenzione degli uni verso gli altri”.
“Tutti ovviamente hanno avuto paura all’inizio, poi con il passare del tempo è subentrata l’insofferenza per la reclusione. Ora si alternano paura per un possibile contagio causato da altre persone disattente quando si esce, oppure una sorta di incoscienza/fatalismo del genere ‘ne ho superate tante!’. Spesso troviamo a dover far chiarezza rispetto alla confusione che i residenti della struttura vivono data, in parte, da messaggi contrastanti che ricevono dai media e in parte dalla diversa condizione di partenza. La loro condizione salute è diversa rispetto alla popolazione generale, c’è un fattore di rischio maggiore”.
“Il nostro centro è convenzionato. Dunque non andiamo avanti tramite le offerte delle persone. Tuttavia notiamo che in termini di risorse economiche la popolazione fa più fatica essendo la crisi economica collettiva. D’altro canto invece la generosità personale (intesa come tempo per mettersi a disposizione ed aiutare gli altri) è rimasta costante. Se non addirittura superiore al solito”.