La carità come opportunità per ricucire la separazione fra fratelli. “Penso che la collaborazione sul piano assistenziale, la risposta comune alle emergenze sia un campo di lavoro che ci interpella, e che non esaurisca la sua efficacia nell’organizzazione degli interventi o nella messa in comune delle risorse, ma ci stimoli anche ad una sempre più grande conoscenza reciproca, con ricadute che non possiamo prevedere anche a livello di discussione etica e quindi teologica”, afferma a Interris.it Ilenya Goss, pastora valdese e medico.
Goss, medicina e carità
Ilenya Goss è pastora delle chiese valdesi di Mantova e Felonica Po, è laureata in Medicina e Chirurgia, Filosofia e Teologia. Dopo l’abilitazione alla professione di medico chirurgo, ha insegnato Bioetica, Storia della medicina ed Etica medica presso l’Università di Torino, nei corsi di laurea in Infermieristica e Medicina. Collaboratrice alla didattica delle Medical Humanities nei corsi di Evidence Based Medicine dell’Università di Torino, fa parte della Commissione bioetica delle chiese battiste, metodiste e valdesi.
La pandemia ha provocato un milione di nuovi poveri in Italia, la carità può essere un’opportunità per l’ecumenismo?
“La pandemia è stata l’emergenza sanitaria che ha innescato una serie di effetti di cui oggi cominciamo a comprendere la portata: la crisi dell’occupazione, l’impatto sull’educazione, sulla cultura, sulla scuola, sulle attività legate al turismo, sulla piccola imprenditoria stanno emergendo e nei prossimi mesi diventerà sempre più vistosa l’ampiezza della forbice economica che porta sotto la soglia di povertà una parte numericamente rilevante della popolazione. Credo che più che di una “opportunità” per l’ecumenismo si tratti di una situazione che chiama fortemente le chiese alla responsabilità: certamente una azione congiunta e concertata di intervento per soccorrere, per cercare vie e proposte in grado di rispondere ai bisogni che si manifestano è fondamentale, e costituisce un campo di lavoro in cui l’ecumenismo può dare buona prova a livello di collaborazione pratica”.
L’aiuto alle fragilità può essere terreno di dialogo ecumenico?
“L’aiuto alle fragilità è parte integrante di una esistenza vissuta secondo l’insegnamento biblico, sia nella condotta dei singoli, sia inteso come azione comunitaria, con una valenza di tipo sociale, ma anche politico nel senso più ampio della parola. Le chiese cristiane sono impegnate, con stagioni più o meno fruttifere, nel dialogo ecumenico, nell’impegno a collaborare ovunque ciò sia possibile, dunque sia a livello di elaborazione teologica, sia a livello di interventi di assistenza a coloro che sono in difficoltà, i più esposti e deboli”.
I valori cristiani più che predicati vanno praticati. C’è una crescente richiesta di senso religioso della vita in questa situazione di emergenza sanitaria?
“Tra i tanti effetti dell’emergenza sanitaria vi è anche l’aver suscitato nuovi interrogativi in molte persone, e l’aver provocato crisi personali: l’impatto a livello emotivo e psicologico è comprovato dai dati di accesso a servizi di supporto già presenti o organizzati proprio durante l’emergenza. Chi ha vissuto questo periodo impegnato professionalmente a vari livelli, ma anche chi ha vissuto in modo meno “attivo” il lungo tempo di sospensione delle attività, coloro che hanno perduto persone care, e più in generale tutti noi abbiamo subìto in molti casi una forte sollecitazione a cercare un significato all’esperienza vissuta; che tutto questo si traduca poi in una ricerca di senso “religioso” è anche possibile, ma non scontato e non necessariamente duraturo”.
Possono esserci altri effetti?
“Ogni shock può provocare un impulso alla maturazione e alla crescita, ma può anche determinare un blocco: le situazioni sono sempre da osservare da vicino, al di là di un dato generale che può avere un significato sociologico e statistico, ma dice poco sulla natura dei cambiamenti personali. Nelle chiese si è avvertito un bisogno di momenti comunitari e il ricorso a colloqui pastorali a distanza è stato molto frequente: certamente esiste anche un bisogno non completamente espresso e che talvolta non riusciamo a intercettare da parte di persone lontane dalla frequentazione delle comunità, ma che avvertono una sete di conoscenza e di cura in questa prospettiva”.
Quali radici e fonti evangeliche si possono portare a sostegno della mobilitazione dei cristiani a favore di chi soffre per la pandemia?
“Più che citazione di singoli passaggi della Scrittura si può dire che la mobilitazione in favore di chi soffre sia un aspetto fondamentale della formazione etica che caratterizza la comunità cristiana: l’insegnamento ebraico su cui si innesta il messaggio cristiano è costantemente rivolto alla cura dei deboli, dei fragili, di coloro che sono provati e in difficoltà da ogni punto di vista: fisico, economico, emotivo, relazionale. La pandemia colpisce da molti punti di vista le persone e la società, a livello globale: la salute, le relazioni, l’economia, i rapporti sociali, acuisce le differenze, favorisce discriminazioni, aumenta lo svantaggio di chi è già in condizioni precarie”.
Cosa può accadere ora?
“Proprio l’ampiezza delle conseguenze di questa crisi, che inizia come sanitaria, ma investe ogni aspetto della vita, costringe ciascuno a trovare il proprio ruolo, a trovare la propria capacità di essere con gli altri e di diventare responsabile, a livello singolo e a livello collettivo. Dare speranza, essere molto pratici e concreti nell’azione, ma anche forti nella denuncia dell’ingiustizia, è un compito a cui i cristiani non possono, e non vogliono, sottrarsi: l’insegnamento biblico e l’annuncio evangelico ci pongono in una ben precisa prospettiva rispetto alle difficoltà nostre e altrui, e ci danno l’energia necessaria per diventare una presenza che soccorre e sostiene ovunque ci sia un essere umano che soffre”.