Giornata mondiale dell’aiuto umanitario, Iezzi (Msf): “Ogni missione mi insegna qualcosa”

Msf

© Gabriella Bianchi/MSF

A volte si nasce già con un’inclinazione ad aiutare il prossimo, quello più bisognoso, più vulnerabile, più povero, più lontano. “Quando era piccola mi chiedevano cosa avrei voluto fare da grande, rispondevo che volevo curare i bambini in Africa. All’università ho studiato medicina proprio per arrivare a partecipare alle missioni umanitarie”, racconta a Interris.it Federica Iezzi, cardio-chirurgo pediatrico agli Ospedali riuniti di Ancona recentemente tornata da due missioni con Medici senza frontiere, in Yemen e ad Haiti, in occasione della Giornata mondiale dell’aiuto umanitario. Una data istituita nel 2008 dall’Assemblea generale delle Nazioni unite per commemorare la morte di 22 operatori umanitari occorsa a Baghdad, in Iraq, il 19 agosto 2003. Non si tratta solo di una ricorrenza da celebrare una volta l’anno, ma di un’occasione di sensibilizzazione sulle difficoltà delle persone in condizioni di bisogno in tutto il mondo, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo e in quelli ancora più poveri e in condizioni di arretratezza sotto il profilo dei servizi e delle infrastrutture essenziali. “Lasciare qualcosa in questi posti per me è davvero importante” , così Iezzi riassume il senso di questa vocazione, “un piccolo insegnamento può dare un risultato molto più grande”.

Unloading the NFI items from a truck on to a boat. With Diego Rafaeles, Francois Ballong, Gala Lopez.

Alcuni dati

Secondo il “Global humanitarian overview 2022” redatto dall’Onu, a livello mondiale gli indicatori non segnano miglioramenti, anzi. La povertà estrema risale, dopo due decenni di calo, con circa venti milioni di persone finite in questa condizione in due terzi dei Paesi inseriti dalle Nazioni unite nel piano di risposta umanitaria, 811 milioni di persone sono sottonutrite e 43 Stati nel mondo rischiano di finire in carestia. Le persone che necessitano di assistenza umanitaria saliranno da 235 milioni del 2021 – già la cifra più alta ma raggiunta da decenni – a 244, nel corso di quest’anno. Il Medio Oriente, l’Africa nordoccidentale e quella centrale sono le regioni più in stato di bisogno. In Afghanistan per 24 milioni di persone occorre un’assistenza salvavita, in Yemen l’insicurezza alimentare acuta affligge oltre 16 milioni di persone, mentre in Etiopia le condizioni di 26 milioni di etiopi bisognosi di assistenza umanitaria sono esacerbate da un’economia in peggioramento e dai conflitti. Dall’altra parte dell’oceano Atlantico, il 43% degli abitanti dell’isola di Haiti necessita di aiuti umanitari, per via anche del terremoto di magnitudo 7.2 che nel 2021 ha colpito 800mila persone – e ha infierito su un Paese già devastato da quello del 2010, che fece oltre duecentomila morti, e da un’epidemia di colera.

MSF drivers disembark their motorcycles from the pirogues used to cross a river on the journey between Monga and the health center in Sombe. Other locals using the local pirogues mill about.
Bas-Uele Province, Democratic Republic of Congo.

L’intervista

Dottoressa, cosa l’ha spinta a voler far parte di Medici senza frontiere?

“Quando era piccola mi chiedevano cosa avrei voluto fare da grande, rispondevo che volevo curare i bambini in Africa. All’università ho studiato medicina proprio per arrivare a partecipare alle missioni umanitarie e Medici senza frontiere è sempre stato un po’ il mio obiettivo. Da quando sono diventata medico, cardio-chirurgo pediatrico, oltre al lavoro in Italia, ho partecipato a tantissime missioni di organizzazioni umanitarie.  La prima volta è stata oltre 20 anni, quando a 19 anni sono andata come volontaria in un centro di vaccinazione dell’Unicef in Burkina Faso. Mantengo il mio lavoro in Italia, attualmente ad Ancona, per poter apportare qualcosa di nuovo e aggiornato alle persone, con cui lavoro e a cui faccio educazione e formazione come cardio-chirurgo  e manager”.

© Irene D’Agostino/MSF

Una delle sue ultime missione con Msf è stata in Yemen, paese sull’orlo della carestia e devastato da oltre sette anni di guerra civile. Che cosa ha visto lì e in quali condizioni si è trovata a operare?

“In Yemen sono stata per un periodo di sette mesi, come chirurgo e come coordinatore medico di un ospedale ad al Mokha, una città sulla costa occidentale,  gestito dal 2018 Msf, dove si trattano i traumi e le emergenze ostetriche neonatali. E’ una struttura, fatta di tutta di tende, che accoglie una popolazione di un milione e mezzo di persone che non avrebbe altre cure. L’attività dell’ospedale è rivolta sia alle vittime dirette che a quelle indirette del conflitto ed l’unico che fornisce cure chirurgiche di emergenza ai civili. I trauma e le principali patologie sono le lesioni dirette da arma da fuoco o per i bombardamenti. Anche le persone a cui viene colpita la casa da una bomba e restano sotto le macerie sono vittime del conflitto, così come chi salta su una mina antiuomo, come i bambini che vanno scuola, o le donne incinte che devono fare i controlli per la gravidanza e sono costrette ad attraversare i posti di blocco”.

Lei è chirurgo pediatrico. Qual è la situazione dei bambini yemeniti e che tipo di assistenza è stata fornita alle donne incinte e alle madri?

“L’ospedale funge da centro per le emergenze ostetriche neonatali, per cui le donne non sono seguite per tutto il periodo della gravidanza, ma comunque trattiamo tutte quelle che non riescono ad accedere gli ospedali pubblici, oberati di persone. Queste donne arrivano da noi al limite massimo della loro gravidanza, con problemi di vario tipo, sono seguita, tratte e infine fatte partorire, sia con parto naturale che con parto, perché l’ospedale funge da centro anche chirurgico. Io ho partecipato a circa un migliaio di nascite, nel complesso ne sono stati effettuati 1.700 nel 2019 e 1.200 nel 2020. Gli interventi, in totale, sono stati rispettivamente 5.800 e 6.600. La guerra continua e mette in difficoltà gli ospedali pubblici”.

Lavorare in Yemen è stato pericoloso?

“La paura c’è sempre, ogni giorni sentivo bombardamenti non lontani dalla linea del fronte, ed è anche una grandissima protezione che ti fa mettere in situazioni a rischio. Ma viene dopo, prima c’è da andare nelle terapie intensive, nelle sale operatorie, dove si salvano le vite delle persone, dei bambini. Come operatrice umanitaria di Medici senza frontiere non mi sono mai sentita in pericolo, perché è un’organizzazione rispettata e protetta dalle forze in campo. Sanno che stiamo salvando la loro gente.  Ci sono stati ingressi particolarmente rabbiosi o veementi ma sono sempre stati risolti da chi si occupa della sicurezza, noi del pool medico non abbiamo sentito l’urgenza del pericolo”.

Dr. Henryk Mazurek, MSF gynaecologist-obstetrician conducts an ultrasound on a patient who is about to deliver twins, prior to obstetric surgery. Since November 2015, MSF has been working at the Bol regional hospital to support the Ministry of Health in maternal and paediatric care. A gynaecologist, an anaesthetist, a paediatrician, a midwife and a nurse are now working together with the hospitalís medical staff to improve the quality of treatment and to provide patients free and comprehensive medical services.

Come la pandemia ha influito sulle vostre possibilità e modalità di intervento?

“A Mokha il principale problema sono stati bombardamenti, mancavano i tamponi quindi non si poteva sapere chi era negativo o meno e mi trovavo lì quando dovevano arrivare i primi vaccini. In altre città, come Aden, la seconda ondata di Covid si è fatta sentire e Medici senza frontiere, che lì ha la sua parte di coordinamento, ha supportato un ospedale pubblico del trattamento dei pazienti Covid”.

Un’altra missione a cui ha partecipato è stata ad Haiti, paese devastato da due terremoti, dove, secondo il Global Humanitarian Overview 2022 delle Nazioni unite, il 43% della popolazione ha bisogno di aiuto umanitario. Quali le fragilità e le emergenze che si è trovata a fronteggiare nel suo periodo sull’isola?

“Sono tornata da questa missione a fine maggio, dopo essere stata lì sei mesi. Haiti è un paese molto difficile, tutto si concentra nella capitale Port au Prince dove i quartieri, negli anni, sono finiti sotto il controllo di gruppi armati violenti. Quelle zone delle città erano totalmente bloccate, non entravano cibo né medicine e uscire per andare a lavoro o a scuola era pericolosissimo. Nelle capitale Medici senza frontiere ha un ospedale con una parte traumatologica dove trattiamo le ferite da arma da fuoco. Arrivano membri delle bande armate ma anche civili con delle lesione come se si trovassero in un teatro di guerra. L’altra parte della struttura ospedaliera è il centro grandi ustionati, ho dovuto operare molte donne e molti bambini vittime di quelle che chiamano ustioni criminali. I gruppi armati hanno infatti trovato un altro escamotage per minacciare i civili: bruciano le case o i famigliari delle persone da cui vogliono qualcosa di cambio. Il grande ustionato è come marchiato, messo fuori dalla società”.

Qual è, per lei, il senso del fornire aiuto umanitario?

“Ogni missione mi ha regalato qualcosa, io ‘prendo’ tantissimo quando vado in missione. Lasciare qualcosa in questi posti per me è molto importante. Un piccolo insegnamento può dare un risultato molto più grande, qualcuno può far tesoro dei miei insegnamenti e a sua volta trasmetterli ad altre persone”.

Lorenzo Cipolla: