Giornalisti in zona di guerra. Intervista all’inviato Francesco Semprini

A destra nell'immagine: foto Imago/Image. A sinistra: Francesco Semprini (per gentile concessione di Francesco Semprini)

Passano i giorni e si allunga la durata del conflitto in corso fra lo Stato di Israele e Hamas scoppiato dopo gli attacchi dello scorso 7 ottobre. “Siamo nella terza fase della guerra”, ha dichiarato il primo ministro Benjamin Netanyahu, mentre aumentano le operazioni delle truppe israeliane nella Striscia di Gaza. E sulla guerra le opinioni pubbliche devono essere informate in maniera fedele alla realtà dei fatti. “Il giornalismo di guerra è una delle ultime forme nobili del nostro mestiere”, dichiara a Interris.it l’inviato della Stampa a Tel Aviv Francesco Semprini, “il nostro compito è toccare la realtà, anche rischiando, per fornire ai lettori gli strumenti per giudicare”. Semprini è un esperto in materia, tanto da aver ricevuto lo scorso anno la Medaglia d’oro di Neuffer, il principale premio dell’Associazione dei corrispondenti delle Nazioni unite (Unca), per la sua copertura della guerra in Ucraina, argomento del suo ultimo libro “Trincee e segreti”, edito da Magog, con prefazione del già ministro dell’Interno italiano Marco Minniti.

La situazione

Dopo quasi un mese di scontri, con Gaza sotto i bombardamenti – a cui Hamas risponde con il lancio di razzi – e i soldati che entrano nelle Striscia, secondo il giornalista questa dinamica potrebbe protrarsi. “Queste operazioni di incursione e ripiegamento sono volte a decapitare i vertici di Hamas e potrebbero continuare ancora per un po’, sostenute dall’aviazione e dall’artiglieria per spianare la strada alla fanteria e ai carri armati”.

Il rischio escalation

Dall’inizio delle ostilità in questa parte di Vicino Oriente si teme un allargamento del conflitto a livello regionale, che possa quindi vedere coinvolti altri Paesi. L’attenzione di tutti è spostata verso il nord di Israele, alla Linea blu che lo divide con in Libano, dove i miliziani Hezbollah e i soldati israeliani alternano gli attacchi. “Non credo a un’escalation su base regionale”, prosegue Semprini. “Si registrano focolai più accesi al confine israelo-libanese e ci sono movimenti di protesta accesi in Cisgiordania, ma non credo che l’Iran abbia interesse a un allargamento, magari più che altro da azioni di disturbo, data anche la presenza di portaerei statunitensi che hanno un effetto deterrente data la loro possibile risposta”. Alcuni giorni fa gli Stati Uniti, ha dichiarato il portavoce del Consiglio per la sicurezza americana John Kirby, hanno colpito con dei raid in Siria quelle che ha definito “le strutture di stoccaggio e i depositi di munizioni” dei gruppi sostenuti da Teheran.

Il blocco arabo

La situazione sulla scacchiera mediorientale va comunque tenuta sotto attenta osservazione. “Ci sono le piazze infuocate, il presidente turco Erdogan ha ingaggiato una ‘guerra diplomatica’ con Israele e le parole dei leader giordani sono una presa di posizione a favore dei palestinesi, ma non di Hamas”, spiega l’inviato. “L’atteggiamento di sostegno ai palestinesi contro eventuali azioni estremamente pesanti da parte israeliana da parte del blocco arabo è chiaro”.

Giornalisti uccisi

Dal 7 ottobre sono morti finora una trentina giornalisti, la maggior parte in Palestina e uno in anche in Libano, secondo quanto riportato dal Comitato per la protezione dei giornalisti (Cpj). “Il Comitato evidenzia che i giornalisti sono civili che svolgono un lavoro importante in tempi di crisi e non devono essere presi di mira dalle parti in conflitto”, ha dichiarato il coordinatore del programma Medio Oriente e Nord Africa di Cpj Sherif Mansour. “I giornalisti di tutta la regione stanno facendo grandi sacrifici per coprire questo conflitto straziante. Quelli di Gaza, in particolare, hanno pagato, e continuano a pagare, un tributo senza precedenti e affrontano minacce esponenziali. Molti hanno perso colleghi, famiglie e strutture mediatiche e sono fuggiti in cerca di sicurezza quando non c’è un rifugio o un’uscita sicura”. Il giornalista della Stampa commenta: “Chi colpisce Gaza con i bombardamenti non va a distinguere chi c’è sotto, fare il reporter in una zona battuta dall’artiglieria e dall’aviazione ti espone molto di più”. Il pericolo riguarda, seppur in maniera diversa, anche gli operatori dell’informazione che sono dall’altra parte. “Al momento chi opera nel lato israeliano del confine ha un margine di rischio più ridotto rispetto a chi è dentro Gaza, a meno di capitare a ridosso della Striscia quando Hamas spara in quella zona”, aggiunge.

Sicurezza e protezione

Data l’importanza della pubblicazione delle notizie raccolte sul posto e accuratamente verificate per cui attendibili, occorre fare quanto più possibile per garantire la sicurezza di chi lavora nell’informazione in un conflitto. “Ci vorrebbero disposizioni di carattere internazionale per la protezione dei giornalisti in zone di guerra”, afferma Semprini, “noi dell’Unca abbiamo avanzato da tempo la proposta di creare la figura dell’inviato Onu per la protezione dei giornalisti”. “Il giornalismo di guerra” – continua – “è una delle ultime forme nobili del nostro mestiere, se fatta senza caricare i racconti di emozionalità ma toccando la realtà con mano, anche a costo di correre qualche rischio se uno se la sente, per dare ai lettori gli strumenti per capire gli eventi”.

La guerra vicina

La seconda fatica editoriale del cronista condensa gli oltre tre mesi passati nel fianco orientale del Vecchio Continente per vedere con i propri occhi, sentire con le proprie orecchie e raccontare, in maniere aderente ai fatti, un conflitto in cui coesistono elementi delle guerre del secolo scorso e quelli della contemporaneità. “La guerra in Ucraina è la prima del nuovo millennio vicina a ‘casa nostra’, i cui effetti geopolitici andranno a ridefinire l’ordine mondiale, e coniuga la trincea, tipica della Prima guerra mondiale di un secolo fa, con elementi ultramoderni, i droni e la cyberwar”, spiega il giornalista. “Nel libro ho raccolto i racconti di ciò che ho visto sul campo, i militari, i civili, cose anche umane e personali, così come i retroscena di 20 mesi di guerra, e li ho suddivisi per aree geografiche, senza metterli in fila in ordine cronologico”, illustra Semprini. “A ridosso del Donbass o vicino Kherson i russi prendevano di mira i giornalisti, tanto che mi sentivo più sicuro a non indossare il giubbotto con la scritta ‘press’”, conclude l’inviato.

Lorenzo Cipolla: