La “gentrificazione” è il processo contemporaneo, di carattere mondiale, attraverso il quale alcune aree cittadine, prima abitate dalle persone meno abbienti, subiscono la riqualificazione degli immobili e dell’ambiente, utile solo a favorire i benestanti, unici a poterle vivere. La riconversione non è effettuata a beneficio degli abitanti originari che, impossibilitati a dimorare in abitazioni e condizioni non più alla loro portata, considerati come ospiti da allontanare, sono costretti ad andar via. Il termine proviene dall’inglese “gentrification” (derivante, a sua volta, da “gentry”, ossia “piccola nobiltà”).
Riqualificazione e gentrificazione non sono sinonimi. Per valutare se, effettivamente, sia avvenuto un processo di “espulsione” per le fasce più povere, occorre analizzare alcuni parametri; fra questi il possibile rincaro del prezzo degli immobili e delle abitudini di vita, i consumi, la qualità dei servizi pubblici e di raccolta dei rifiuti, lo status di chi vi abita.
La rigenerazione di una determinata area dovrebbe costituire un miglioramento delle condizioni di vita a favore di tutti, soprattutto per chi già vi abita che è, invece, costretto, di fatto, ad andar via, perché non più in grado di sostenere il tenore economico che vi si respira.
Zone degradate e insicure non dovrebbero esistere. “Bonificarne” alcune per trasferire le problematiche in un altro luogo, non risolve il problema di fondo. Lo spostamento della miseria dal punto A al punto B non sana la problematica ma la allontana dai quartieri che si intendono offrire ai benestanti in arrivo.
Si tratta di un processo di concreto rifacimento immobiliare e architettonico, supportato intenzionalmente da specifici investimenti economici, con il conseguente effetto collaterale di allontanare i precedenti abitanti; il tutto in un sovvertimento sociale, antropologico e ambientale, in cui le persone più povere sono costrette a emigrare. Si utilizza anche il termine “borghesizzazione”, per evidenziare il “salto”, di un’area abitativa, da luogo operaio (o per il ceto medio) a uso esclusivo dell’alta borghesia.
Si realizzano l’espulsione e lo sradicamento dei poveri, con nuova emarginazione e segregazione sociale. Le barriere e i muri sociali, di chiara distinzione classista, non si abbattono, si spostano.
Nell’Enciclica “Laudato si’”, Papa Francesco ricorda “Meritano una gratitudine speciale quanti lottano con vigore per risolvere le drammatiche conseguenze del degrado ambientale nella vita dei più poveri del mondo. […] Non possiamo tralasciare di considerare gli effetti del degrado ambientale, dell’attuale modello di sviluppo e della cultura dello scarto sulla vita delle persone. […] Alcuni di questi segni sono allo stesso tempo sintomi di un vero degrado sociale, di una silenziosa rottura dei legami di integrazione e di comunione sociale. […] Di fatto, il deterioramento dell’ambiente e quello della società colpiscono in modo speciale i più deboli del pianeta: ‘Tanto l’esperienza comune della vita ordinaria quanto la ricerca scientifica dimostrano che gli effetti più gravi di tutte le aggressioni ambientali li subisce la gente più povera’”.
Giovanni Semi, professore di sociologia, è l’autore del volume “Breve manuale per una gentrificazione carina”, pubblicato da “Mimesis” nello scorso mese di settembre. Parte dell’estratto recita “Birrifici artigianali là dove c’erano minimarket etnici, ostelli di lusso al posto di fabbriche delocalizzate, eleganti loft impiantati in ex quartieri popolari. Il futuro è già qua, si chiama ‘gentrificazione’ e, per quanto faccia rima con ‘riqualificazione’, è un fenomeno che mira a nascondere la povertà e il disagio sotto al tappeto di città che si somigliano in modo sempre più sconcertante. Una distopia illuminata promossa da banche, multinazionali e gruppi immobiliari con il placet di amministrazioni locali incapaci di immaginare una realtà che possa rimettere il bene pubblico al centro del discorso”.
Il I agosto scorso, l’Istat ha pubblicato i risultati del “Censimento permanente 2021: caratteristiche delle abitazioni”. I dati riassunti, visibili al link https://www.istat.it/comunicato-stampa/censimento-permanente-2021-caratteristiche-delle-abitazioni/, riguardano “Nel 2021 nelle Isole il 34,9% delle abitazioni risulta non occupata, segue il Sud Italia con il 32%. Più contenute le percentuali al Nord-est (23,1%) e al Nord-ovest (26%). […] A livello nazionale si contano 116,8 abitazioni per km2: la Lombardia presenta la densità più alta (234,7 abitazioni per km2), la Basilicata quella più bassa (36,2 abitazioni per km2). Le abitazioni costruite prima del 1919 rappresentano il 9,5% delle abitazioni complessive e più di 2 su 3 risultano occupate da almeno una persona residente. Le abitazioni costruite tra il 1961 e il 2000 sono quasi 20 milioni e corrispondono al 56,3% del totale delle abitazioni. Il 26,7% delle abitazioni occupate (6.852.371 unità) ha un’ampiezza compresa tra gli 80 e i 99 m2; seguono quelle tra 60 e 79 m2, con il 20,6%, e quelle più grandi, tra 100 e 119 m2, con il 18,1%”.
Occorre tener presente anche le nuove dimensioni e il DNA delle città: vissute in misura crescente da chi non vi abita (turista, studente, pendolare) e, quindi, in grado di offrire un’impronta, urbana, condizionata dal “mordi e fuggi” e non da esigenze di vita stabile. Il fenomeno è universale: riguarda gli Usa, l’Inghilterra, la Francia; anche l’Italia ne è coinvolta, con, a esempio, il quartiere di Testaccio a Roma e quello di Isola a Milano.
La gentrificazione riguarda anche l’espulsione, da piccole aree, per far posto allo sfruttamento turistico (il caso dei centri storici di Venezia e Roma) ma anche zone costiere dove il turismo di lusso pretende nuovi e fastosi resort al posto di piccoli alberghi o abitazioni private. In tal caso si utilizza il termine ancora più specifico di “touristification”. Alcune località di mare italiane (e non solo) si sono trasformate in “riserve” per un turismo esclusivamente di lusso, ove la classe media e quella povera possono solo guardare da lontano. La gentrificazione è un concetto ampio: si scansa il povero e si pone attenzione solo al ricco.
Con un’accezione più estesa, anche la chiusura di piccoli negozi di abbigliamento, per far posto ad atelier di gran lusso, dove possono spendere solo magnati cinesi, statunitensi o di altre nazionalità, è una forma di gentrificazione. Da sempre, i luoghi più prestigiosi hanno determinato, costantemente, l’abbandono dei più poveri. Questo immorale fenomeno non si è arrestato ma è proseguito in maniera sfacciata, mascherato dall’impunità e dalla fandonia di procedere al recupero edilizio di un territorio.
È possibile una riqualificazione delle periferie e delle aree più degradate senza che il salto di qualità costringa gli abitanti a dover lasciare, di fatto (o a non potervi accedere), le precedenti abitazioni? È possibile un miglioramento a costo zero, senza aumento delle spese, dei prezzi, dei servizi, degli affitti? Le affermazioni di solidarietà e di integrazione sociale rimangono vane e sconfessate dall’evidenza.
Il pubblicizzare opere di riqualificazione dell’ambiente urbano, atte a valorizzare il patrimonio immobiliare e a fornire possibilità abitative decenti (con relativi servizi), a famiglie meno abbienti, stride, invece, con la dura realtà dell’allontanamento graduale degli autoctoni. Nascono movimenti spontanei, civici e politici, per impedire lo sradicamento delle classi meno abbienti, in considerazione, oltretutto, di processi attuali, distinti per l’accelerazione imposta, di gentrification (hypergentrification).
Il “fatto nuovo” consiste proprio nell’accelerazione contemporanea, degli ultimi anni, delle politiche di borghesizzazione e di speculazione edilizia. Chi dispone di più appartamenti è ben intenzionato a venderli o a fittarli a condizioni più vantaggiose. In ogni epoca storica, tra città e campagna, nonché all’interno dello stesso nucleo urbano, si sono sviluppate stratificazioni sociali in rapporto all’edilizia, soprattutto nel periodo della prima rivoluzione industriale (1760-1830) e della successiva (1870-1940). Quel che “innova” è la scusa del voler riconvertire per il bene di tutti ma, in realtà, effettuarlo a senso unico: un’espulsione mascherata.
L’altro aspetto nuovo è che la pur leggera simbiosi che sembrava trasparire, grazie anche a collegamenti veloci e continui, a una globalizzazione imperante in vestiti e abitudini, sembra persa, in virtù di un acceso classismo. La gentrification distrugge l’individuo nella mente prima che nel corpo e a livello materiale poiché lo rende consapevole di essere indesiderato, in colpa per la propria povertà e, ancor di più, uno scarto sociale, da allontanare il più possibile.
Chi divide, discrimina, confina e ghettizza tali scarti sociali, si rende colpevole di peccati gravissimi. In tema di polarizzazioni imperanti in ogni ambito, anche questo fenomeno ne propone una, di carattere sociale e spaziale. Il principio va considerato anche in un’accezione più ampia a livello mondiale, dove le popolazioni povere, indesiderate, sono spinte a migrare, a lasciare le proprie abitazioni, le terre e andare alla ricerca, spesso vana e con conseguenze gravi, di nuovi luoghi ove ammassarsi e sopravvivere.
Il “gentrifier” non dorma sempre sonni tranquilli: col passare del tempo potrebbe, un giorno, essere lui stesso oggetto di espulsione e, quindi, costretto a lasciare l’abitazione per un innalzamento ulteriore del livello economico del suo quartiere. Il carnefice può divenire vittima; il metro è il denaro “posseduto”, in quel momento.