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Garlatti (Agia): “Il mondo dello sport sia una comunità educante”

L’intervista di Interris.it all’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza Carla Garlatti sul recente vademecum “La tutela dei diritti dei minorenni nello sport”

In Italia la parola “sport” fa molto spesso rima con “calcio”. La partita di pallone da novanta minuti in undici contro undici appassiona 28 milioni di persone, circa 4,6 milioni la praticano e i tesserati presso società sono 1,4 milioni, secondo il rapporto annuale sul calcio italiano 2020 stilato dal Centro studi della Federazione italiana gioco calcio (Figc), ai più nota come Federcalcio, insieme Agenzia di ricerche e legislazione (Arel) e PwC. Ma il suo significato è in realtà ben più ampio. Lo sport è gioco, è impegno, è cercare di raggiungere l’armonia all’interno di un gruppo di persone, è salute fisica e mentale, è sviluppo psicofisico, è confronto alla pari, è imparare a essere onesti e leali, ad accettare i risultati meno e fare tesoro dei momenti migliori. Si dice spesso che lo sport è una metafora della vita, con le sue cadute e i suoi successi – e nel mezzo tanta, sempre, impegnativa normalità –. Si potrebbe aggiungere che lo sport è “maestro di vita”. “La comunità sportiva deve essere una comunità educante, come la scuola e la famiglia”, dichiara a Interris.it l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza (Agia) Carla Garlatti, “perché lo sport trasmette valori che possono sostenere i giovani nella vita”. E questo assume una valenza ancora maggiore alla luce dell’esperienza della pandemia, che ha messa a dura prova le vita di tanti adulti e ha avuto una serie di impatti ancora più importanti sui giovani, come segnala anche la ricerca “Pandemia, neurosviluppo e salute mentale di bambini e ragazzi”, promosso dall’Agia con l’Istituto superiore di sanità e con la collaborazione del Ministero dell’istruzione.

L’intervista

Interris.it ha intervistato l’Autorità garante Garlatti dopo la pubblicazione del volume “La tutela dei diritti dei minorenni nello sport”, rivolto ai tecnici e ai dirigenti sportivi, promosso dal Dipartimento per lo sport, dalla Scuola dello sport di Sport e Salute S.p.A. e dall’Agia.

Cosa contiene questo vademecum?

“Si tratta di un progetto su cui abbiamo cominciato a lavorare già diverso tempo fa che ha iniziato a essere concretizzato nel settembre dello scorso anno, quando l’Agia ha siglato un protocollo con l’allora sottosegretario con delega allo sport Valentina Vezzali. Questo volume è stato pensato come uno strumento agile, pratico e maneggevole per gli allenatori, i tecnici, i professori di educazione motoria, per aiutarli nell’intercettare e gestire situazioni problematiche che coinvolgono i giovani e i giovanissimi, come episodi di bullismo nello spogliatoio o anche disturbi del comportamento alimentare. Il mister, il coach, diventa una figura adulta con quale il giovane magari si sente più libero di confidarsi, e lui deve saper gestire questa ruolo”.

Come il vademecum si rivolge a queste figure di riferimento per tanti e tante giovani che fanno attività sportiva?

“L’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza si occupa da diversi anche di curare la formazione allenatori di quarto livello europeo della Scuola dello sport, e in questo lasso di tempo abbiamo registrato una serie di domande ed esigenze dei tecnici nel capire cosa succede e nel sapere come comportarsi in determinate situazioni. Il volume, con un linguaggio semplice e immediato, contiene informazioni e indicazioni su come, per esempio, gli allenatori, devono saper guardare e sentire quello che accade tra e ai ragazzi e alle ragazze. L’ascolto di cosa pensano i giovani, di quello che decidono e delle loro esigenze è davvero importante”.

Lo sport può funzionare come veicolo dei valori dell’inclusione e dell’integrazione per superare le varie forme di razzismo e di discriminazione?

“La comunità sportiva deve essere una comunità educante, come la scuola e la famiglia, perché lo sport trasmette e ‘allena’ a tanti valori. Sul piano personale, insegna ai ragazzi ad affrontare le sfide e ad accettare le sconfitte. Nello sport come nella vita non si vince sempre, e proprio perché oggi viviamo nella società performante sapere invece che si può anche perdere e ci si può riprendere, grazie all’allenamento e alla voglia di migliorarsi, è una lezione di vita. Lo sport è inclusivo perché guarda alla prestazione, all’impegno, più che alla provenienza o al vissuto sociale. E’ anche uno strumento di riscatto per chi viene da realtà marginalizzate della società luoghi di marginalizzazione. E’ importante allora, nelle periferie, avvicinare i ragazzi allo sport, perché gi permette di sviluppare quei valori li sosterranno nella vita”.

Capitolo sport e parità di genere: come la pratica sportiva può consentire di superare gli stereotipi?

“Serve un salto culturale perché non ci sono sport solo per ragazzi e altri esclusivamente per ragazze, ognuno e ognuna deve poter seguire le proprie inclinazioni sportive. Ricordo che quando piccola non era usuale sentire la telecronaca di un evento sportiva fatta da una donna, ora siamo andati avanti. Lo sport deve proseguire su questa strada perché educa in senso ampio”.

Lo sport può diventare anche il mezzo del recupero e del reinserimento sociale per quei giovani che si trovano negli istituti minorili?

“Prima dell’ingresso in una delle 17 strutture minorili si percorrono tutta una serie di strada come la messa alla prova, comunque quando un ragazzo entra in istituto deve sempre mantenere tutti i diritti che la carta gli garantisce. In una struttura contenitiva praticare sport aiuta a socializzare, a fare squadra, a riacquistare fiducia in senso, a divertirsi e trovare gratificazione in quello che fa. Può persino capitare che si scopra di avere dei talenti che non si immaginava nemmeno di possedere”.

Purtroppo neppure il mondo dello sport è impermeabile a episodi di maltrattamento, abusi e violenza. Come renderlo un luogo più sicuro e meglio capace di proteggere giovani sportive e sportivi, atlete ed atleti?

“Occorre sensibilizzare gli allenatori a rendersi conto dei campanelli d’allarme verificare ciò che avviene all’interno del loro ambiente sportivo, come può essere un ragazzino che salta gli allenamenti con delle scuse. Il tecnico deve intercettare e cercare di capire questi comportamenti, parlare con il giovane e magari convincerlo a rivolgersi a chi lo può aiutare. Nei loro ambienti, i ragazzi devono poter trovare adulti di riferimento di cui si possono fidare e da cui sanno che potranno essere visti, ascoltati e creduti”.

Prima faceva riferimento agli effetti della pandemia sulla salute mentale dei giovani e giovanissimi in tempo di pandemia. L’attività sportiva può funzionare come cura, terapia?

“Come Agia, insieme con l’Istituto superiore di Sanità abbiamo avviato uno studio sugli effetti della pandemia sul neurosviluppo e sulla salute mentale di bambini e ragazzi, è uscito il primo volume e la ricerca continua. Nella prima fase pandemia i giovani sono stati veramente dimenticati se non quando venivano additati come degli ‘untori’. Non potevano né uscire né fare sport, quando sarebbe stato importante usufruire di spazi aperti. Poi, col ritorno alla normalità, c’è stata una comunicazione che è stata percepita come contraddittoria e la ripresa è stata delle attività sportive è stata lenta. Fare sport per i ragazzi e le ragazze è socialità, è vivere insieme agli altri, è sfogare in modo sano le loro energie compresse”.

Esiste, a livello nazionale e/o internazionale, il diritto allo sport?

“La Convenzione di New York dei diritti del fanciullo non indica espressamente un diritto allo sport, ma prevede che gli Stati riconoscano al fanciullo il diritto al tempo libero, al riposo, all’attività culturale e artistica e lo si interpreta anche come un diritto a praticare un’attività sportiva. A livello europeo una raccomandazione 2021-2024 indica come priorità la tutela integrale del valore dello sport”.

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