Alle radici della povertà. La diaspora in Sudan dei disperati in fuga dalla guerra civile

Sudan

In Sudan il timore è che si interrompa il difficile percorso di democratizzazione. Quello avviato dopo la caduta di Omar al Bashir nel 2019. Grazie all’accordo raggiunto tra militari e civili. Il futuro del Sudan resta incerto. Dopo il golpe militare del 25 ottobre che ha portato allo scioglimento del governo di transizione. Le speranze della popolazione dopo la fine della dittatura “sono state disattese quasi subito”. Ma al momento c’è ancora la possibilità di trovare un accordo tra militari e civili. Per superare la crisi in atto. Jacopo Resti è ricercatore all’Istituto Affari Internazionali (IAI).

Civili

L’economia sudanese “è sempre stata fortemente sussidiata dal governo. Per tenere i prezzi calmierati”, sottolinea Resti. Ma questi sussidi sono stati eliminati. Perché non sono sostenibili a livello economico. E questo crea problemi come l’inflazione. Si tratta di situazioni che hanno bisogno di tempo per cambiare. E chi ne soffre sono le fasce più povere. “Intanto in questo momento le strade della capitale Khartum sono un fiume umano. Tra manifestazioni pacifiche. E disobbedienza civile. Ricevono solidarietà da tutto il mondo. Attraverso la diaspora sudanese. Anche a Roma la comunità sudanese ha organizzato cortei. Presidi. Manifestazioni. L’appello è uno solo. Medaniya, medaniya, medaniya. Che in arabo significa: civili, civili, civili”, precisa il ricercatore.

Sos Sudan

L’ ex fellow alle Nazioni Unite ha lavorato e vissuto in Sudan tra il 2019 e il 2020. “Già dal principio era chiaro che i militari avrebbero avuto un ruolo predominante. O comunque non subalterno al governo civile”. E l’obiettivo dei civili “non è tanto quello di escludere i militari”. Quanto di attribuirgli un “ruolo di garanzia. E non di controllo”. Secondo Resti un accordo tra le due parti “probabilmente verrà raggiunto”. In quanto è “nell’interesse di tutti”. Nessuno è stato sorpreso dal golpe, spiega il ricercatore. Secondo il quale “rientrano nell’ordine delle cose” i ritardi sulla transizione. Il precedente tentativo di colpo di stato. E quello attuale. E prosegue: “Già si sapeva che si sarebbe andati incontro a simili strappi. A questo braccio di ferro che dura da un paio di anni tra militari e civili. Più volte la transizione ha rischiato di deragliare. Ma c’è sempre stata la volontà da entrambe le parti di tornare al dialogo. Ci sono stati numerosi incidenti. Però tutti hanno voluto evitare un conflitto”.

Transizione

Uno dei motivi che spaventa di più i militari riguarda la perdita di immunità. Sono in corso investigazioni sui crimini commessi dalle forze di sicurezza. Durante e dopo il golpe del 2019. Cosa fare per convincere le forze armate a lasciare completamente il governo ai civili? Le forze armate “dovrebbero ricevere delle garanzie”, spiega Resti a LaPresse. Da due anni i manifestanti a Khartum gridano “civili” in piazza. Ma i militari non debbano far parte del governo di transizione. Ciò non significa che non debbano avere un ruolo. Ossia quello di “garanti e protettori dello stato di diritto“, puntualizza il ricercatore. Il golpe del 2019, infatti, ha avuto successo anche grazie ai militari. Hanno preso le difese delle proteste. Questo viene loro riconosciuto dalla popolazione.

Tentativi di mediazione

Il generale Abdel Fattah al Burhan ha guidato il golpe. E ha riconfermato il suo incarico di presidente del Consiglio sovrano. Istituito nel 2019. E formato da militari e civili. E’ una figura “moderata e disponibile al dialogo“. Gode di un certo riconoscimento a livello internazionale. Essendo stato in Europa. In Francia. In Usa. Resti sottolinea come molto più preoccupante sia la figura del vice di al Burhan. Il generale Mohamed Hamdan Dagalo. Collaboratore strettissimo di Bashir. E leader fino a pochi anni fa di Janjaweed. Milizia accusata di crimini di guerra in Darfur. “Ma stavolta i militari hanno perso molta credibilità agli occhi della popolazione. Ci stati gli ultimi tentativi di mediazione del rappresentante speciale delle Nazioni Unite. Ma neppure Volker Perthes è riuscito per ora a ricondurre i movimenti di protesta civile al tavolo dei negoziati. Un nuovo accordo, se raggiunto, difficilmente vedrà l’appoggio civile agli stessi vertici militari del golpe”, afferma il ricercatore.

Fine della dittatura

L’11 aprile del 2019 cadde il dittatore Bashir. “Era un giovedì. Stavo andando in ufficio la mattina presto“, ricorda Resti. La sua esperienza è descritta nel libro “A viverci è tutta un’altra storia”. “Non sospettavo nulla. Anche se avevo sentito qualche clacson di troppo per strada. Rispetto al traffico usuale. Ho pensato a una manifestazione. Mai mi sarei immaginato quello che poi è successo. Ero a piedi. Poco distante da dove abitavo. Ho incrociato una collega etiope che mi ha detto una sola parola in amarico. Mi ha detto “è caduto”. E allora ho realizzato. Era finita la dittatura di Bashir. Sono rimasto basito in mezzo alla strada. Ho svoltato l’angolo. E sulla via principale sono iniziati a risuonare i clacson di un corteo di giovani in festa“.

Povertà in Sudan

La notizia, racconta Resti, “è stata accolta con grandi festeggiamenti. Le strade si sono riempite di manifestanti. Soprattutto giovanissimi che non avevano mai visto nessuno al governo che non fosse Bashir“. Dunque, puntualizza, “era una festa colma di gioia. Nella speranza che qualcosa potesse cambiare con la componente civile al governo. La popolazione confidava che si potessero non solo fare grandi riforme. Ma anche ottenere miglioramenti concreti nella vita quotidiana. Dopo mesi e anni di condizioni economiche difficilissime. Mi ricordo file chilometriche davanti al panettiere. O ai distributori di benzina. Il pane costava tantissimo. E molte persone non sapevano come arrivare a fine mese. L’inflazione era alle stelle. Ogni giorno, ogni settimana il cambio aumentava. La sterlina sudanese si svalutava”. Dal 2019 dei passi avanti sono stati fatti. A livello di pace e di sicurezza. Che era il dossier prioritario. Ma restano gravissimi problemi economici. Le file davanti ai negozi che vendono beni di prima necessità ci sono ancora. Conclude il ricercatore: “E’ un Paese con l’economia al collasso. C’è tanta inflazione. Molte persone lavorano in nero. Quando si blocca il Paese per il Covid o per il golpe è una catastrofe. Alla popolazione vengono a mancare i mezzi di sostentamento“.

 

Giacomo Galeazzi: