Fiasco: “I Neet, effetto del declino della cultura del servizio delle grandi agenzie del Paese”

In Italia i Neet sono tre milioni. Con questa parola, l’acronimo di “not in education, employment or training”, che da qualche anno abbiamo imparato a conoscere, si indicano i giovani e le giovani – le donne sono più della metà e il 20% del totale sono madri inattive – che non studiano, non hanno un’occupazione e non sono inseriti in percorsi di formazione. Numeri purtroppo da primato negativo all’interno dell’Unione europea, che raccontano di diseguaglianze profonde, complesse, diversificate e trasversali da Nord a Sud, tra livelli di istruzione e tra le grande città e la provincia. Un fenomeno, questo, correlato al sempre attuale problema – che viene da lontano – della disoccupazione giovanile nel nostro Paese, che ha conosciuto un netto aggravamento tra il 2008, anno della crisi economica, e il 2014, quando risultava Neet oltre il 27,4% delle e dei giovani dai 15 ai 34 anni. Il decremento successivo al picco di otto anni fa ha subito poi un rialzo nel 2020, quando l’incidenza del fenomeno ha fatto registrare un tasso del 25,1%. I dati che aiutano a comprendere più a fondo il fenomeno e a evidenziare la peculiarità dei sottogruppi contenuti in questa categoria, cercando anche di superare stereotipi come quello degli “sdraiati”, sono contenuti nel recente rapporto “Neet tra diseguaglianze e divari. Alla ricerca di nuove politiche pubbliche”, a cura di ActionAid e Cgil nazionale.

La fotografia

Nel 2020 l’Italia è quarta in Europa (e prima nell’Ue) per numero complessivo di Neet tra i 15 e i 34 anni, più di tre milioni, di cui 1,7  donne, con il bacino maggiore nelle fasce d’età 25-29 anni e 30-34 anni – al salire dell’età, cresce la quota Neet. Il nostro Paese è preceduto, per tasso d’incidenza, da Turchia (33,6%), Montenegro (28,6%) e Macedonia (27,6%). In quell’anno in Italia un giovane su quattro non lavorava, non studiava e non era presente in percorsi di formazione. La più alta presenza di giovani Neet, il 39%, si registra nel nostro Mezzogiorno, mentre nel Centro Italia è al 23% e rispettivamente al  20% nel Nord-Ovest e al 18% nel Nord-Est. Il tasso di incidenza sulla popolazione italiana resta comunque elevato ovunque: anche il tasso minimo infatti (16%) è superiore al dato medio europeo (15%). Non mancano dati più particolari come il fatto che la più alta percentuale di Neet con diploma di laurea è residente nella provincia di Asti (30%), in Piemonte. Al livello di singole province, dal rapporto emerge che i Neet sono maggiormente presenti in quelle che hanno al proprio interno grandi comuni, tra cui Napoli, Roma, Palermo e Catania. Un elemento, purtroppo, trasversale è quello degli inattivi, con una maggior incidenza tra i laureati nel Nord Italia e le donne, poiché in genere ricadono su quest’ultime i carichi del lavoro di cura in famiglia, che rappresentano il 66%.

I cluster di Neet

Un importante focus del rapporto è l’analisi dettagliate dei quattro sottogruppi, detti cluster, in cui si suddivide la categoria Neet in Italia. Il primo riguardo i ragazzi tra i 15 e i 19 anni che hanno solo la licenza media – nel nostro Paese anche la dispersione scolastica esplicita, seppur in calo, è superiore alla media europea – vivono in famiglia, non lavorano e sono inattivi, cioè non cercano un’occupazione. Il secondo sottogruppo comprende i giovani tra i 20 e i 24 anni che sono in cerca di una prima occupazione e si tratta del cluster più numeroso, che racchiude persone con cittadinanza italiana, il diploma di maturità, che vivono in una grande città o in un grande comune e sono residenti nel Mezzogiorno. La loro difficoltà a inserirsi nel mercato occupazionale, osserva il rapporto, deriverebbe dalla fragilità del mondo del lavoro nel Sud Italia. Ci sono poi i giovani adulti, tra i 25 e i 29 anni, disoccupati in cerca di nuovo lavoro. Questi vivono nel Centro Italia, hanno un alto livello di istruzione e percepiscono un sussidio di disoccupazione. Quarto sottogruppi, i cosiddetti “scoraggiati”. Si tratta perlopiù di soggetti nella fascia di età 30-34 anni, residenti soprattutto nel Nord Italia, in aree non metropolitane, con precedenti esperienze lavorative ma che attualmente non cercano un impiego. Osserva, in merito a questi soggetti, nella sua prefazione al rapporto il demografo e docente universitario Alessandro Rosina: “Del tutto disillusi sulla possibilità di trovare un’occupazione (luci spente). Sono giovani che oramai non ci credono più, bloccati da situazioni familiari problematiche o segnati da esperienze negative che li hanno fatti precipitare in una spirale depressiva sul versante non solo economico, ma anche emotiva e relazionale. Quest’ultima categoria è la più difficile da intercettare e riattivare perché è anche quella meno visibile e risulta più difficile da coinvolgere, se non attraverso interventi di prossimità in grado di introdurre strumenti che prima ancora dell’occupabilità sappiano riaccendere la fiducia in sé stessi e il desiderio di riprendere attivamente in mano la propria vita”.

Fiasco: “Crollo della cultura del servizio”

Raggiunto da Interris.it per commentare i contenuti del rapporto, il sociologo Maurizio Fiasco riprende le considerazioni dell’esperta Chiara Saraceno e parte dalla riflessione sugli effetti che può avere l’etichettatura di un determinato fenomeno e su quella che ritiene essere una diffusa retorica polemica contro i soggetti più svantaggiati. “Il modo in cui si definisce ogni fenomeno sociale che diventa oggetto di attenzione non è irrilevante rispetto alla prassi che poi attuano sia chi lo osserva che il destinatario di un’osservazione. L’acronimo Neet è un’etichetta da cui si può partire per costruire nuove politiche pubbliche o può trasformarsi in un’ulteriore forma di pressione e di vittimizzazione di chi già versa in condizioni di difficoltà”. “Perché un’etichetta può determinare sia l’atteggiamento di chi vorrebbe aiutare sia di chi deve essere aiutato”, aggiunge nella sua spiegazione. “I Neet sono oggi schiacciati tra l’autoreferenzialità delle agenzie pubbliche del Paese, scuola, centri per l’impiego e sistema della formazione, e una retorica, presente nel discorso pubblico, contro gli svantaggiati che  stigmatizza la passività producendo, in una profezia che si autoavvera, l’oggetto che vuole stigmatizzare”. In merito alle politiche pubbliche rivolte ai giovani, Fiasco osserva che l’autoreferenzialità che riguarderebbe le tre agenzie – “la logica dell’adempimento e non dell’iniziativa” – deriva dal “crollo della cultura e della qualità del servizio, il calo della responsabilità attiva del ruolo che si ricopre”. “Nella scuola”, prosegue, “si è persa la centralità dell’istruzione e del benessere degli studenti”. Per quanto riguarda il mondo del lavoro, il sociologo continua: “La struttura che si occupa di far incontrare domanda e offerta non intercetta questo ampio segmento della popolazione, non riuscendo a collocare quelle opportunità che ci sono, perché non si segue più la logica del servizio come attività svolta di iniziativa. Così come ha i suoi problemi il settore della formazione”. Sul fatto che in base al rapporto molte donne siano inattive per via delle disparità attinenti il lavoro di cura in famiglia, Fiasco aggiunge che “la quarta agenzia, l’organizzazione del sistema di sicurezza sociale, è incentrata sugli apparati e non decentrata, a domicilio, così la sicurezza sociale della famiglia e il welfare famigliare pesano pressoché interamente sulla donna”. Il sociologo conclude poi così: “I Neet sono in larga parte l’effetto del declino della cultura etica del servizio delle tre grandi agenzie del Paese. Occorre ripartire dal basso, dalle persone non solo come portatrici di bisogni ma con le loro potenzialità. Occorre rilanciare la cultura etica del servizio”.

Lorenzo Cipolla: