“È certamente condivisibile la necessità di venire incontro a quanti, privati di dignità, avvertono in modo più acuto le conseguenze di un’integrazione non realizzata, venendo ora maggiormente esposti ai pericoli della pandemia. È dunque auspicabile che le loro situazioni escano dal sommerso e vengano regolarizzate, affinché siano riconosciuti ad ogni lavoratore diritti e doveri, sia contrastata l’illegalità e siano prevenute la piaga del caporalato e l’insorgere di conflitti tra persone disagiate”. Bastano queste poche parole, inviateci dalla Santa Sede a nome di Papa Francesco in risposta a un nostro appello, a farci mettere a fuoco diversi motivi per cui una regolarizzazione dei lavoratori di origine straniera sia quanto mai giustificata.
È un dibattito, questo, che siamo orgogliosi di aver aperto da ben prima della pandemia e da molto prima che venisse affrontato, con carattere emergenziale, in Italia e in diversi Paesi europei per far fronte a una strutturale mancanza di manodopera stagionale dopo il lockdown planetario. Solo che, davanti a quello che da diversi ghetti del Sud avevamo denunciato come un degrado inaccettabile, più di qualcuno – cittadini comuni, politici, colleghi, lavoratori – continuava a risponderci: “Regolarizzazione? Sarebbe sacrosanta, ma la gente forse non capirebbe”. Già, la “gente”. Quella stessa gente che ha continuato a trovare i prodotti della nostra agricoltura anche in piena emergenza sanitaria, grazie anche al lavoro dei tanti invisibili che vivono nei ghetti e vengono impiegati senza contratto. Quella stessa gente che oggi viene bombardata da messaggi contraddittori, quando non da vere e proprie fake news, provenienti da ogni dove. In tv si alternano esperti di lavoro agricolo, anche se non hanno mai messo piede in un’azienda agricola né tanto meno in una baraccopoli di braccianti, a ricordarci che l’integrazione sarebbe una battaglia “di sinistra” e la legalità un principio “di destra”, che la regolarizzazione sarebbe un “incentivo all’illegalità e a nuove invasioni di immigrati”, una scelta “inutile per rispondere alla mancanza di manodopera”, una “specie di condono”, una misura che può essere evitata perché tanto “basta usare i voucher”. Eppure quella che chiamiamo “gente”, a ben vedere siamo tutti noi, e meriteremmo un linguaggio di verità, non una battaglia disumana che strumentalizza gli ultimi.
Lo sappiamo che fake news e battaglie ideologiche complicano la sfida dell’inclusione, alimentano l’odio sociale, non offrono soluzioni di alcun tipo. L’impressione è che, sulla pelle dei lavoratori, italiani e non, l’Italia stia dimostrando di essere ancora una volta in perenne campagna elettorale. Uno scenario indegno, specialmente se pensiamo alle sfide dell’emergenza sanitaria e di una fase 2 piena di insidie e incertezze per tutti.
Se imparassimo dal passato, potremmo agire in modo equilibrato e capire tanti aspetti della regolarizzazione. A cominciare dal fatto che non è un incentivo alla illegalità, ma l’esatto contrario. Uno Stato che si consideri tale, infatti, non può accettare che nel proprio territorio vivano persone sconosciute, prive di alcun diritto, anche quelli fondamentali, fingendo di non vederle accalcate sui pulmini o nelle fermate dei bus per recarsi nei campi. Ogni giorno, con turni massacranti, ricattati da aguzzini che trattengono dalla loro misera paga l’affitto di alloggi fatiscenti e i soldi di una bottiglia d’acqua. Tutto rigorosamente in nero.
Secondo punto, una regolarizzazione non è come un condono. Tanti lavoratori stranieri sono divenuti irregolari dopo i decreti sicurezza. Mentre con i condoni prima si compie un reato e poi si cerca di sanarlo dietro pagamento, mettendo sullo stesso piano chi rispetta le leggi e chi no, nella regolarizzazione accade il contrario: lo Stato si preoccupa di conoscere, censire, proteggere, chi è divenuto invisibile. E facendolo, non copre la furbizia di uno, ma tutela la sicurezza, in questo momento anche sanitaria, di tutta la collettività.
Leggiamo poi sui social provocatori che chiedono “quanto costa agli italiani la regolarizzazione”. Eppure costa molto di più tenere le persone nel limbo dell’illegalità, lasciare che siano arruolate nell’economia sommersa, magari dai caporali, per implementare la concorrenza sleale e il fatturato delle agromafie. Mentre regolarizzare comporta, da sempre, un gettito per le casse dello Stato. Secondo la Fondazione Leone Moressa, 300 mila regolarizzazioni porterebbero in questo momento nelle casse dello Stato 1,2 miliardi di euro, tra contributi previdenziali e Irpef.
Inoltre, a chi perde tempo a etichettare se certe misure siano di destra o di sinistra, occorre ricordare che la regolarizzazione più grande risale al 2002 e fu eseguita da un governo di centro destra. Coinvolse più di 630 mila persone. Altre sanatorie sono state fatte da governi di tutti i colori, nel 2006, nel 2009, nel 2012. Dal 1986 al 2012, ha calcolato l’OIM, Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, basandosi sui dati Istat e del Ministero dell’Interno, sono state regolarizzate un milione e 600 mila persone. Persone che, nella stragrande maggioranza dei casi, dopo essere entrate nei circuiti della legalità e dell’economia nazionale, ci sono rimaste.
Come è spesso accaduto, anche oggi la regolarizzazione non riguarderebbe solo chi può avere un contratto in agricoltura, ma anche tante lavoratrici e tanti lavoratori che operano come colf, badanti, baby sitter. Persone alle quali si affidano i propri figli, i propri genitori anziani, la propria casa. Ma alle quali evidentemente si fa fatica a riconoscere un diritto fondamentale: quello all’identità. Non è paradossale?
Al di là delle ipocrisie e delle strumentalizzazioni, dunque, il tema andrebbe affrontato in maniera serena. Per unire, non per dividere. Da parte nostra, abbiamo avanzato diverse osservazioni alle Ministre Catalfo e Bellanova. Vorremmo si trattasse di un’operazione non limitata a rinviare soltanto le problematiche attuali. Per questo crediamo ci siano alcuni punti importanti. Primo, il permesso di soggiorno dovrebbe essere rinnovato, alla scadenza del contratto, con lo stesso datore di lavoro o con un’altro datore di lavoro, e non essere vincolato a un unico datore. Secondo, la perdita del posto di lavoro non dovrebbe costituire motivo di revoca del permesso di soggiorno; occorre concedere al lavoratore un permesso di soggiorno per attesa occupazione della durata di un anno, e fare in modo che il lavoratore possa rendere dichiarazione all’ufficio per l’impiego che attesti il lavoro precedentemente svolto e l’immediata disponibilità allo svolgimento di attività lavorative. Terzo punto, la stessa cosa andrebbe garantita nel caso in cui il lavoratore non riuscisse a finalizzare la propria domanda per motivi imputabili al datore di lavoro. Infine, la richiesta di versamento di un contributo da parte del datore di lavoro, ponderata ai fini contributivi e fiscali, non dovrebbe ricadere in alcun modo sui lavoratori, come invece è stato fatto in passato da chi non ha perso occasione per speculare sulla pelle delle persone.
Si tratta di misure di buon senso, sulle quali vigileremo affinché si apprendano dal passato le buone prassi e si faccia a meno degli errori. Come appunto quello di essere poco responsabili davanti a scelte che incidono sulla vita delle persone e sulla dignità del lavoro.