Alcuni nomi si vestono di leggenda. Al pronunciarli hanno quasi un’eco. Si tratti di una musica tipica del loro tempo o del rumore di una macchina da presa. A volte sembra quasi di sentirne il sapore, tanta è la loro iconicità. O, addirittura, il dolore. Esperienze che, con il nome di Rocky Marciano, si fanno un po’ tutte. C’è la musica, quella del rockabilly e dei primordi del rock and roll, che scivola dalle radio domestiche degli anni Cinquanta o viene fuori dai nuovi vinili. C’è il cinema, con lo Star System hollywoodiano che crea i primi divi, belli e, a volte, tenebrosi. E sì, c’è persino il sapore, quello della vecchia Italia, lasciata prima ancora di nascere ma scolpita nel cuore e fluente nelle vene. Ed è chiaro che c’è anche il dolore, quello che si prova, indirettamente, nel guardare un incontro di boxe.
Marciano, sulle tracce del mito
Marciano, forse, non era bello come un attore, col naso provato dai pugni e quel corpo tozzo, lontano anni luce dai fisici definiti degli atleti odierni. Ma dietro quel braccio dal corto allungo, c’era una forza sovrumana, la potenza di chi la vita ha dovuto costruirsela, difendendola con la strenua resistenza dello straniero in terra straniera. Perché Rocco Marchegiano, nativo di Brockton, tradiva il suo sangue mediterraneo. E, americano figlio di migranti, ha deciso di tenerselo addosso anche sul ring, rivendicando il coraggio dei genitori e dei loro tanti, tantissimi compagni di piroscafo. Il pugilato come sport, lavoro ma anche edificazione sociale. E, pugno dopo pugno, anche quell’America, guardinga e maccartista potenza mondiale, finisce per innamorarsene. Anche perché, Marciano da quel ring non è mai sceso sconfitto. E gli Stati Uniti del suo tempo si cullarono con il suo mito, accarezzando il sogno, illusorio, di un’ascesa perenne, priva di sconfitte.
Un libro d’eccezione
È un viaggio nel tempo ma anche fuori dal tempo, quello che Dario Ricci, giornalista di Radio24, ha raccontato nel libro “Rocky Marciano. Sulle tracce del mito 1923-2023” (DfgLab). Col “meraviglioso pretesto” di un mito vero, il racconto passa da una sponda all’altra dell’Atlantico, tra incontri veri, occhi negli occhi, e superfighting virtuali, toccando con mano, a cento anni dalla nascita di Rocco e a più di cinquanta dalla sua tragica morte, le ultime tracce concrete della sua leggenda. Quelle destinate a sopravvivere alla prova del tempo, scolpite nell’epica dello sport, e quelle di cui le generazioni di oggi scorgono appena l’esistenza.
Dario, Rocky Marciano è un mito recente e, allo stesso tempo, distante nel tempo. Americano ma anche italiano. Come ci si accosta a un personaggio simile per realizzare un’opera così affascinante?
“È un personaggio che conosco e approfondisco da tempo, dal 2005 in poi. Ne avevo raccontato parabola e la carriera in un reportage su Radio 24. L’occasione del centenario ci permette di riflettere sul concetto di mito post-moderno e nello sport. Non a caso il libro è molto eterodosso”.
Ad esempio?
“C’è la prefazione Valentina Clemente, collega giornalista di SkySport che segue in particolare l’America, il mondo della musica e degli spettacoli, avendo quindi le carte in regola per leggere cos’è un fenomeno pop. Laddove i nostri miti postmoderni sono propriamente tali. Ma c’è anche la riflessione di Lorenzo Montagna, con il quale leggiamo il superfight virtuale tra Marciano e Ali. E ancora, la conversazione con il critico musicale de ‘Il Secolo XIX’, Renato Tortarolo, con cui inquadriamo esperienza di Marciano nella storia della cultura pop e del Novecento sul piano artistico e culturale. L’introduzione, poi, è una chiacchierata con un filosofo, il professor Maffoletto, che ci spiega cos’è un mito e perché ancora oggi e per sempre ne avrà bisogno, assieme alle loro storie, per sopravvivere a sé stessa”.
Marciano incarna tutto questo?
“La parabola umana, carriera e vicenda di Marciano sono filo conduttore ma si muovono anche sullo sfondo. La ricerca ha tutto sommato altre finalità, anche se Marciano è uno splendido pretesto”.
Se una delle finalità è descrivere il concetto di mito, quale sarebbe la declinazione per Rocky?
“Incarna il paradigma dell’invincibilità. È l’unico pugile nella storia dei pesi massimi a essersi ritirato imbattuto. E soprattutto perché, nel breve volgere dei pochi anni della sua carriera, visto il suo affacciarsi alla boxe relativamente tardi e per frutto più della sua abnegazione, Marciano incarna il mito dell’invincibilità per un’America che vuole sentirsi invincibile. Gli Stati Uniti hanno vinto due guerre mondiali e stanno dettando le proprie regole al tavolo del mondo. Eppure, mentre lo fanno, mentre vivono di questo mito scarnificato, vedono emergere tutte le loro contraddizioni. Basti pensare alla spaccatura tra America afroamericana e quella dei bianchi”.
Sfumature che, nello sport, consacrano i loro miti. Per gli afroamericani fu Joe Louis e, successivamente, Muhammad Ali…
“In questo senso, anche se arrivano con una leggera sfasatura temporale, Marciano e Ali sono gli specchi in cui queste due coscienze dell’America si riflettono. Ammesso che siano solo due. Penso alla linea evolutiva ebraica e quella sudamericana. Il mito dell’invincibilità è come un gigante dai piedi di argilla nell’inquadrare l’America in cui Marciano si fa largo pugno dopo pugno”.
L’accostamento Italia-Stati Uniti, per il pugilato, porta a due nomi: Primo Carnera e Rocky Marciano. Il primo, però, era un italiano a tutti gli effetti, mentre Marciano era figlio di emigranti. Quanto ha influito il tratto della sua italianità?
“Il tratto dell’italianità è fondante. Non possiamo non tener d’occhio le date. Marciano nasce nel 1923, siamo negli anni in cui l’immigrazione degli italiani è un flusso potente ed essenziale per sviluppare la nuova America che si costruirà soprattutto dopo la Grande depressione e il New Deal. Evidenziare questo aspetto è quasi tautologico. Oggi possiamo vedere un’immagine quasi sbiadita dell’italianità in America ma non certo allora. Queste radici sono forti, c’è l’individuo che vuole nasconderle e chi vuole esaltarle, come Marciano. Lo stesso nome da pugile, ‘Rocky Marciano’, frutto dell’americanizzazione di Rocco Marchegiano, tradisce il fatto di voler mantenere ben viva la radice italiana. Inizialmente gli era stato suggerito un più semplice ‘Rocky Mac’ ma lui insistette per far sì che si capisse bene la sua origine. In quell’America lì, l’italianità ha ancora un imprinting fortissimo. Che sopravvive ancora oggi ma chiaramente in modo diluito, visto il tempo trascorso”.
Marciano era nato a Brockton ma suo padre era di Ripa Teatina: cosa resta, in città, della famiglia Marchegiano? E anche di Rocco…
“Io sono a Ripa Teatina dal 2015 e dal 2016 facciamo il Festival Rocky Marciano. E da una ventina d’anni c’è anche un Premio che insignisce gli sportivi abruzzesi. Il Festival è un corollario, dedicato alla cultura sportiva. A Ripa il mito di questo personaggio è ben vivo, anche perché in linea di continuità col discorso che facevamo. Marciano è un mito che unisce le due sponde dell’Oceano Atlantico, quella mediterranea e quella statunitense. Anche perché la sua è una storia di emigrazione. O meglio, quella dei suoi genitori, visto che lui nasce a Brockton. Due dei tanti italiani che vanno a cercare un miglior destino in America anche se, in quegli anni, essere italiani negli Stati Uniti era molto difficile. Più sfumata la memoria a San Bartolomeo in Galdo, paese della mamma, Pasqualina Picciuto. Ma anche in questo senso ci siamo riattivati per dare nuova vitalità a questa memoria”.