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Edoardo Crisafulli: “La mia fuga da Kiev”

L'intervista a Edoardo Crisafulli, adetto culturale dell'Ambasciata d'Italia a Kiev, autore del libro 33 ore - Diario di viaggio dall'Ucraina

In un momento storico dominato dall’incertezza e dalla paura per una guerra lunga e vicina che cambia inevitabilmente le sorti e gli assetti del mondo, il professor Edoardo Crisafulli, addetto culturale dell’Ambasciata d’Italia a Kiev, ha aperto il suo diario di viaggio. In 33 ORE – Diario di Viaggio dall’Ucraina in guerra presta i suoi occhi al lettore, oltre alle le sue sensazioni di uomo inerme di fronte a quella che è l’alba di un grande conflitto e mette la sua preparazione al servizio di in una sapiente riflessione tra storia, cultura e quotidianità in tempo di guerra.

Quali pensa siano le concause che hanno fatto sì che Putin reputasse questo il momento storico giusto per iniziare una guerra. E perché questa guerra?

“Questo è il periodo dell’incertezza ideologica, della confusione culturale e politica, fattori che abbassano la soglia critica nelle opinioni pubbliche democratiche occidentali, che si trovano a discutere e confondere il russofono con il russofilo, a causa di una manipolazione delle informazioni e della storia da parte della Russia. Il regime russo è in crisi da anni, anche economicamente, e in una parte della società russa c’è un risorgere del nazionalismo con venature imperialistiche proprie dello zarismo. Putin, identifica tutte le zone russofone come russe, come nel 1800, quando però non esistevano le federazioni di oggi. Così non riconosce i confini che il diritto internazionale ha sancito già trent’anni fa”.

Nel suo libro chiede al nipote di un ex soldato sovietico: “Sarà una guerra tecnologica?”. Ma i fatti dimostrano quanto sia fisica. Dunque: che tipo di guerra è questa?

“È definita una guerra ibrida. L’ibrido è un concetto dominante della nostra epoca e in questo caso lo è su tre punte: l’uso di missili tecnologicamente avanzati (attuali), la trincea (che scaraventa indietro nel tempo) e la guerra culturale fatta di fake news e manipolazioni. Il mio libro parte proprio da quest’ultima punta, perché serve una reazione a livello culturale. In questi ultimi trent’anni, per esempio, in Italia sono venuti a mancare partiti storici e gran parte dell’opinione pubblica si forma oggi anche attraverso i social media, strumenti utili, ma pericolosi se fruiti senza la giusta preparazione culturale ed una base ideologica che possano riparare dalle menzogne”.

33 Ore è un diario di viaggio che racconta dell’Ucraina. Chi sono gli ucraini e chi sono quelle persone diventate profughi? Cosa non dimenticherà?

“Gli ucraini, come tutti i popoli dell’Europa orientale e includerei anche i russi, sono culturalmente vicino a noi, hanno lo stesso substrato cristiano e le stesse correnti artistiche. Mantengono però le loro specificità, sicuramente il fatto che siano stati per settant’anni sotto il tallone sovietico ha lasciato dei segni indelebili e serve del tempo per comprendere le differenze. I profughi sono persone di ogni livello culturale che si sradicano dalla loro realtà, che si separano, lasciano le loro case, trovano nuove scuole per i loro figli, senza avere nessuna certezza. Mi ha molto colpito la loro dignità. Ci sono due momenti che non dimenticherò mai: il nonno ed il nipote, armati alla meglio, ai posti di blocco che presidiavano il territorio con un’infinita determinazione a difendere la loro casa e poi gli abbracci e i commoventi saluti, forse d’arrivederci o forse d’addio, tra mogli e mariti, fidanzati, figli e genitori”.

Perché pensa sia importante puntualizzare la differenza tra aggressori ed aggrediti?

“È fondamentale puntualizzarla. Prendiamo il caso della NATO: anche supponendo che sia stata un po’ troppo assertiva, definire la sua discesa in campo come un’aggressione è una manipolazione semantica e linguistica. L’aggressione è quella che hanno fatto i russi. La pressione economica, politica e culturale che ovviamente esercitano società democratiche libertarie come gli USA è un’altra cosa, perché avviene in un contesto di libertà, dove la violenza è stata quasi completamente espulsa e si chiama egemonia. Configurando l’egemonia come un’aggressione dimentichiamo una delle più grandi lezioni della cultura cristiana: il concetto del libero arbitrio. Possono esserci cause esterne che spingono verso una guerra, ma alla fine c’è sempre un leader che decide per la discesa in campo. Sembra quasi che i russi siano stati obbligati a reagire, ma non è vero. È stata una scelta consapevole”

Dal suo risveglio, il 24 febbraio 2022, con tre boati e poi una fuga, che escalation ha vissuto in quelle 33 ore?

“In questi casi non c’è mai subito la sicurezza assoluta dell’intensità del conflitto. C’era già un conflitto definito “a bassa intensità” nel Donbass da diversi anni, i soldati al confine con la Bielorussia erano valutati dalle immagini satellitari circa trecentomila persone, non un numero adeguato, come i fatti hanno poi dimostrato, ad occupare un Paese grande due volte e mezzo l’Italia. Si pensava ad un attacco limitato territorialmente. Noi dell’Ambasciata eravamo abbastanza tesi, ma pronti perché erano attivi tutti i servizi di sicurezza. Nei giorni precedenti allo scoppio della guerra, l’Ambasciata ci aveva lasciati liberi di decidere se restare o partire. Io avevo degli eventi culturali programmati, tra cui un musical italiano al Teatro dell’Operetta, programmato per il 26 febbraio 2022 che riusciremo a portare finalmente in scena tra pochi giorni e così ho deciso di rimanere. Il 24 febbraio ci è arrivato un messaggio Whatsapp: “Confluire in luogo sicuro”, dove ci sarebbero poi pervenute tutte le informazioni dall’Unità di Crisi della Farnesina, che segue con grande professionalità tutti gli italiani nel mondo nei momenti di crisi. I vertici politici ci hanno indicato di lasciare l’Ucraina nel giro di uno o due giorni ed il lavoro di supervisione del nostro Ambasciatore Pierfrancesco Zazo è stato, come continua ad essere, eccellente”.

Lei era in salvo, ma il suo telefono era pieno di messaggi, può raccontarli?

“Ho ricevuto centinaia di messaggi. Quelli degli amici dall’Italia che mi invitavano a scappare, senza però rendersi conto che avrei potuto lasciare il Paese solo seguendo le direttive istituzionali. Poi c’erano i messaggi strazianti delle persone ucraine che avevo conosciuto nei mesi, anche agli eventi culturali, che mi pregavano perché portassi in salvo i loro figli o le loro mogli, convinti che noi diplomatici avessimo un aereo organizzato. Ma quell’aereo non c’era e nel caso avremmo dovuto seguire uno schema per il rimpatrio con delle precedenze, dover dire no è stato doloroso. Siamo tornati a bordo di una macchina, senza valigie, solo un pacchettino a testa, in quel poco spazio siamo riusciti però a far stare una ragazza ucraina, solo una”.

La guerra di Putin ha cambiato strategia, sta distruggendo tutte le centrali elettriche e la possibilità di una vita normale in tutta l’Ucraina. Dunque come potrà organizzarsi l’Europa per reggere il flusso migratorio dall’Ucraina?

“La mia impressione è che non ci sarà un flusso migratorio così massiccio. Gli ucraini sono operativi e riescono in breve tempo a risistemare le centrali colpite. C’è da sapere che la Galizia, la parte occidentale del Paese, è più sicura, l’energia elettrica è razionata a momenti, ma ci sono dei generatori e si riescono a svolgere molte attività. A mio avviso poi questo è un tipo di immigrazione più semplice rispetto ad altre, con gli ucraini condividiamo la cultura, molti giovani parlano due lingue, hanno un altissimo livello d’istruzione e sono dei gran lavoratori. Ritengo che l’Europa riuscirà a gestire questa situazione, anzi vedo segnali molto positivi di una comunità europea che è riuscita a trovare motivi di unità e capacità strategica ed operativa”.

Esiste un rischio di guerra nucleare?

“Credo che ora ci sia da sperare. Sono ottimista e credo che la diplomazia, con passi felpati, qualcosa stia facendo. Un aiuto importante, anche se dietro le quinte, è quello di Papa Francesco. Il Vaticano ha grandissime capacità di mediazione e di solito è ben accetto. Non sono abbastanza esperto di politica russa, ma quello che so è che ci sono correnti sane anche li. La Russia ha una cultura imponente e radicata e a livello politico-giuridico fin dall’epoca zarista e purtroppo non ha mai sviluppato una cultura liberale e libertaria abbastanza forte da essere prevalente. Come antidoto all’autocrazia bisognerebbe instillare il seme del liberalismo. Io credo nel dialogo culturale, il mio lavoro si basa su questo, su uno scambio non sul boicottaggio della cultura russa, per questo ho molta fiducia nei giovani”.

Che messaggio ha voluto mandare scrivendo questo suo libro?

“Non pensavo di scriverlo in realtà. Ma sentirmi dire dall’editore che così avrei potuto fare qualcosa di utile anche per il popolo ucraino mi ha convinto. Il mio è un testo anche letterario, narrativo che vuole condannare ogni tipo di guerra, ma al tempo stesso sottolineare che non tutte le guerre sono uguali. Ci sono guerre di aggressione, ci sono guerre di autodifesa e se si viene aggrediti è legittimo essere difesi”.

Pubblicato sul settimanale Visto

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