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“Ecco perché in Italia le culle sono vuote”

Intervista di Interris.it sull’inverno demografico al direttore del Laboratorio di statistica Lsa dell’università Cattolica, Alessandro Rosina

Docente universitario e saggista. Studia le trasformazioni demografiche, i mutamenti  sociali, la diffusione di comportamenti innovativi. Alessandro Rosina, oltre a professore ordinario di Demografia e Statistica sociale nella Facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano, dove è anche Direttore del centro di ricerca Lsa (Laboratorio di statistica applicata alle decisioni economico aziendali), è presidente dell’associazione InnovarexIncludere, tra i fondatori della rivista online Neodemos; coordina inoltre la realizzazione della principale indagine italiana sulle nuove generazioni (“Rapporto giovani” dell’Istituto G. Toniolo).

Gli italiani continuano a diminuire. Per ogni 100 residenti che muoiono ne nascono solo 67. Dieci anni fa erano 96. Quali considerazioni si possono fare sull’inverno demografico del nostro paese?
“La demografia ci pone davanti all’evidenza del percorso passato e delle scelte fatte, con le loro implicazioni e il grado di condizionamento sul percorso futuro. L’Italia, dopo una lunga fase di crescita, si trova ora ufficialmente in declino. La popolazione italiana ha perso la sua capacità endogena di crescere e la stessa immigrazione non è più in grado di compensare il deficit tra nascite e decenni. Dobbiamo preoccuparcene? La risposta è sì, non tanto per il semplice fatto di essere in calo, ma per ciò che sta alla base della diminuzione e per le implicazioni che produce. Oramai la sfida del paese non è più crescere dal punto di vista demografico, ma non diminuire troppo. I dati Istat confermano che l’Italia si trova in una recessione demografica che si sta cronicizzando, con conseguenze di medio e lungo periodo peggiori di quella economica”.

Il calo demografico italiano è dovuto sostanzialmente al Mezzogiorno e al Centro. Perché?
“Il calo demografico risulta più accentuato nelle regioni del Mezzogiorno perché lì la natalità risulta più bassa, maggiori sono inoltre i flussi verso altre regioni (verso il Nord oltre che verso l’Estero), ma anche perché l’immigrazione straniera si concentra più nelle regioni settentrionali, dove ci sono più opportunità di lavoro, che meridionali. La natalità risulta più bassa al Sud perché tutti i fattori che agiscono negativamente sulla scelta di avere un figlio in Italia sono ancora più accentuati in tale area del Paese”.

La popolazione residente in Italia è in calo per il quinto anno consecutivo. Quanto incide la migrazione italiana verso l’estero?
 Nel decennio 1999-2008 gli italiani che hanno trasferito la residenza all’estero sono stati 428 mila a fronte di 380 mila rimpatri (rientri di italiani). Dal 2009 al 2018 si è osservato un significativo aumento di tali trasferimenti verso l’estero e una riduzione dei rientri (complessivamente 816 mila espatri e 333 mila rimpatri). Pur in crescita nel tempo, la migrazione degli italiani verso l’estero non è la causa principale della diminuzione della popolazione, perché è in ogni caso più che compensata dai flussi di entrata degli immigrati stranieri. E’, quindi, soprattutto il divario tra nascite e decessi che agisce negativamente sulla crescita demografica”.

Esiste una “questione giovanile”?
“Se ci concentriamo sul saldo di giovani con alto capitale umano tra Italia e altri paesi sviluppati, esso risulta sensibilmente negativo e questo è ancor più problematico in un Paese che rispetto al resto d’Europa presenta meno giovani e meno laureati. Questo significa che stiamo perdendo la componente più importante per ridare vitalità al Paese e riattivare i processi di crescita. Questo, come abbiamo detto, è ancor più vero nelle regioni meridionali”.

Un paese con sempre più anziani va incontro a squilibri economico-sociali?
“La conseguenza più problematica delle dinamiche demografiche italiane non è tanto la riduzione della popolazione complessiva, ma il profondo squilibrio tra generazioni che rende più debole l’economia e più instabile il sistema di welfare”.

Come sta cambiando l’Italia?
“La struttura di una popolazione muta lentamente, ma gli effetti sono poi implacabili. Possiamo pensare alla popolazione come un edificio il cui pilastro portante è costituito dalle età centrali adulte, quelle che maggiormente contribuiscono alla crescita economica e al finanziamento del sistema di welfare pubblico. A mettere a repentaglio stabilità e sostenibilità di questo edificio non è l’aumento della longevità, che consente a ciascuna generazione di spingersi più in avanti rispetto alle precedenti (la sfida che essa pone è, semmai, quella di aggiungere qualità agli anni in più guadagnati). Ciò che produce squilibri è, invece, la riduzione del contingente iniziale di ciascuna nuova generazione, ovvero la diminuzione delle nascite. La denatalità italiana ha prima ridotto la popolazione infantile, poi quella giovanile ed ora sta iniziando ad erodere sempre più anche le età adulte (anche tenendo conto dei flussi migratori, senza i quali la riduzione sarebbe ancor più rilevante). Tutto questo avverrà più in Italia che altrove in Europa perché, a parità di longevità, il crollo delle nascite è stato da noi più consistente e persistente”.

Quali sono i pericolo per la tenuta del sistema Paese?
“Il rischio, come evidenzia il report “Un buco nero nella forza lavoro” pubblicato da Laboratorio futuro dell’Istituto Toniolo,  è ora quello di veder indebolire progressivamente il pilastro produttivo del paese per una combinazione di basso peso demografico e bassa partecipazione effettiva al mercato del lavoro. Ma la stessa riduzione quantitativa al centro della vita attiva riduce la possibilità di ripresa delle nascite. Del resto le priorità della politica sono sempre altre, perché più direttamente spendibili sull’orizzonte della prossima scadenza elettorale, mentre le politiche familiari e a favore delle nuove generazioni richiedono altra lungimiranza, altro livello di consapevolezza e di responsabilità collettiva”.

Quanto possono incidere le politiche di Welfare per cambiare le dinamiche demografiche?
“Le politiche di welfare, come mostra il confronto con altri Paesi avanzati e tra regioni del Nord e del Sud Italia,  possono incidere molto, soprattutto nel ridurre il divario tra numero di figli desiderati e quelli che effettivamente poi si hanno”.

Quali politiche ritiene necessarie per tornare ad avere le culle piene in Italia?
“Bisogna agire su quattro fronti. Il primo è l’insieme di misure che favoriscono l’autonomia dei giovani, cioè la possibilità dei giovani di diventare indipendenti, di iniziare un proprio percorso di vita e quindi di formare una propria famiglia. Se fanno fatica a trovare lavoro, vivono una situazione di incertezza occupazionale e di reddito, non solo diventa difficile uscire dalla casa dei genitori, ma anche pensare di formare una propria famiglia. Un secondo punto è una rete solida di servizi per l’infanzia. Tali servizi sono cruciali per la conciliazione tra lavoro e famiglia. Non a caso siamo uno dei paesi con peggior combinazione di bassa occupazione femminile e bassa fecondità, con particolare accentuazione nelle regioni meridionali. Terzo fronte: misure chiare e facilmente accessibili di sostegno economico alle coppie con figli”.

A quali carenze occorre ovviare?
“Le carenze di conciliazione, da un lato, e di sostegno economico, dall’altro, fanno sì che l’Italia sia uno dei Paesi a più alto rischio di povertà per le famiglie che hanno figli, soprattutto quelle che vanno oltre il secondo figlio. Infine, altro punto fondamentale è che è necessario un processo continuo di monitoraggio e di miglioramento delle politiche attuate. In generale, l’Italia ha soprattutto bisogno di fare un forte investimento perché le scelte familiari siano sostenute sul versante economico e siano messe in relazione positiva con quelle lavorative, ben integrate tra loro, non in collisione l’una con l’altra. Ma, al di là di singole misure, serve un cambio di paradigma che porti a considerare le misure a favore della famiglia e delle giovani generazioni all’interno delle politiche dello sviluppo del paese”.

Nel resto d’Europa il trend è ugualmente negativo?
Tutti i Paesi avanzati sono scesi sotto i due figli per donna, presentano quindi una fecondità più bassa rispetto a quella necessaria per un adeguato equilibrio generazionale. Ma la situazione è in ogni caso molto differenziate. Possiamo distinguere tre gruppi. Il primo è quello dei paesi con fecondità scesa poco sotto i due figli per donna, quindi hanno prodotto pochi squilibri. Si tratta, in particolare, di Stati Uniti, Francia e in parte anche i Paesi scandinavi. C’è poi un secondo gruppo di Paesi crollati molto sotto la media dei due figli (quindi hanno prodotto squilibri rilevanti) ma, grazie a recenti misure solide messe in campo, sono recentemente in ripresa”.

Sotto il profilo demografico, come vanno le cose in Germania, locomotiva economica d’Europa?
“La Germania è un esempio: scesa prima della crisi sotto la fecondità italiana ma poi risalita fino a convergere con la media europea. C’è, infine, un ultimo gruppo di Paesi scesi molto sotto i due figli per donna, che a differenza del secondo gruppo non sono più riusciti a invertire la tendenza e quindi presentano valori tutt’ora persistentemente bassi. L’Italia è il caso più rilevante di quest’ultimo gruppo. Nel quadro quindi di una bassa fecondità in tutto il mondo sviluppato, l’Italia presenta comunque livelli tra i più peggiori e senza segnali evidenti di ripresa”.

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