Andare nelle periferie, geografiche ed esistenziali. Questo è l’invito che papa Francesco ha ripetuto più volte alla sua Chiesa e alla sua comunità. Luoghi dove ricostruire legami, ridare fiducia e creare nuove possibilità. Apertura, accoglienza e dare un senso profondo alla vita sono le coordinate secondo cui si orienta, nella sua missione pastorale, don Stefano Cascio, parroco della Chiesa di San Bonaventura da Bagnoregio, nel periferico quartiere capitolino di Torre Spaccata. La sua opera in questo spicchio di Roma est è raccontata in una delle otto puntate della docu-serie “La casa sulla roccia”. Una produzione di Tv2000 Factory, scritta da Beatrice Bernacchi e Gianni Vukaj, che racconta da vicino le storie di comunità parrocchiali, raccogliendo le testimonianze di laici e di sacerdoti, mostrandone la quotidianità e le attività messe in campo per edificare costruzioni su basi solide e durature, cioè accostarsi e vivere secondo certi valori.
Il quartiere
Sorto negli anni Sessanta, sulla scia del cosiddetto “piano Fanfani” che nel Dopoguerra puntava a rilanciare l’occupazione attraverso l’attività edilizia, costruendo alloggi per le famiglie a basso reddito, il quartiere nasceva sulla base di un piano regolatore ed era pensato con spazi verdi, giardini e cortili, tra gli edifici. “Oggi è una zona periferica un po’ in abbandono, non ci sono né un teatro né luoghi culturali, manca la pulizia e l’erba cresce sui marciapiedi”, dice don Stefano a Interris.it. “Lo scorso anno è scoppiato un enorme incendio nel vicino parco di Centocelle con la sua nube di fumo e ancora oggi non possiamo accedere all’area archeologica qui vicino”. Qui il sacerdote è dal settembre 2016 parroco della chiesa giubilare, in precedenza retta dai francescani minori conventuali. Il luogo di culto è sorto dopo una protesta da parte degli abitanti del quartiere nella prima metà degli anni Settanta per avere una chiesa e simbolicamente piantarono una croce in mezzo a un campo, racconta don Stefano.
Parroco, il padre buono della comunità
In un quartiere dal nome di una torre medievale oggi diroccata, qual è la roccia su cui si costruisce? “E’ Cristo”, risponde il sacerdote. “La mia prima azione pastorale è stata una missione eucaristica nella parrocchia per consentire l’adorazione dell’eucaristica perpetua e continua, mantenendo la chiesa aperta fino alle dieci di sera. Ogni anno pastorale iniziamo con una settimana eucaristica, per far ripartire tutto da questo”, spiega. “Essere ‘padre’ della propria comunità richiede di essere attenti alle persone, di amarle e di desiderare il loro bene, per far crescere in tutti il senso di essere una famiglia” – continua – “il parroco, padre buono, si deve sentire coinvolto nella vita degli altri e deve agire nel luogo in cui si trova, cercando di dare risposta al bisogno, di custodire il posto che ci ospita e di migliorare le condizioni di vita delle persone”.
La rete e l’integrazione
Un’azione che si articola in una serie d’iniziative sul territorio, alcune delle quali congiunte, per il recupero dei più fragili, con l’offerta di aree comuni. “Facciamo il doposcuola insieme alle Acli, i pomeriggi dal lunedì al venerdì dalle 17:00 alle 19:00, rivolto a quei ragazzi i cui genitori stanno tutto il giorno fuori casa, vivono in famiglia situazioni complesse o per quei giovani di altre nazionalità che devono fare i compiti in italiano”, illustra il parroco, “e a questo uniamo l’attività sportiva, calcio e rugby, due volte alla settimana, in collaborazione con l’organizzazione umanitaria italiana Intersos”. “La parrocchia è un luogo di integrazione”, aggiunge don Stefano.
Una casa aperta
La parrocchia di San Bonaventura ha fatto suo questo intendimento con l’accoglienza di una famiglia siriana in fuga dalla guerra nel proprio Paese, poi diventata parte integrante della comunità. Un’esperienza nata dalla decisione del sacerdote di ricavare un appartamento in un’ala del convento, molto spazioso, e dalla risposta a un’esortazione di papa Francesco. “Ero appena tornato dalla Siria, dove ero stato per un documentario della Rai, ‘Fede e libertà’, e un amico siriano mi ha parlato di questa famiglia, una coppia con due figli, cui ho proposto di venire a stare nel nostro appartamento”, racconta don Stefano. “Quando la famiglia si è allargata con l’arrivo della terza figlia hanno comprato un loro appartamento, così abbiamo trasformato il nostro in una casa dello studente”, continua. “Ne ospitiamo quattro ogni anno e gli viene richiesto di fare volontariato nella parrocchia, di seguire il gruppo dei bambini. Questa casa deve essere una casa aperta che non ha paura e non si chiude su sé stessa”, afferma il parroco.
Alla ricerca
Quella all’apertura è una delle spinte interiori più forti, per don Stefano. “L’invito di san Giovanni Paolo II a prendere il largo ha dato senso alla mia vita e cerco di farlo vivere nella comunità in cui opero”, spiega. “Dobbiamo lasciare la sponda delle nostre sicurezze per andare alla ricerca di una vita più profonda e più bella all’esterno. E dobbiamo farlo con passione, mettendoci il cuore”, conclude il sacerdote.