Il rifiuto dei bambini verso alcuni cibi, oggi un fenomeno in crescita nei Paesi occidentali (presente tra l’1 e il 5% della popolazione), si basa su motivazioni diverse e atti intenzionali pur di respingere alimenti sgraditi.
Alcuni bambini, quindi, mostrano disinteresse e rifiuto di assumere determinati cibi (spesso frutta e verdura). Si tratta di un atteggiamento selettivo, in genere non pericoloso poiché il piccolo si nutre, seppur con una varietà limitata di cibo.
Considerata, spesso, come un capriccio, un vezzo, un essere “schizzinosi”, nei casi estremi può divenire pericoloso per la salute psicofisica, Il DSM V, il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, infatti, dal 2013 lo considera “Disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione del cibo” (con l’acronimo ARFID, Avoidant Restrictive Food Intake Disorder).
Si parla di selettività alimentare estrema nel caso il soggetto si fermi a soli 5 alimenti.
Il disturbo va monitorato, alla stregua degli altri legati all’alimentazione, molto più noti, che hanno conseguenze gravissime fra i giovani. Nell’ultima versione del DSM, sono classificati 3 disturbi dell’alimentazione (anoressia nervosa, bulimia nervosa e binge eating) e 3 disturbi della nutrizione (Pica, Ruminazione e quello Evitante/Restrittivo dell’assunzione di cibo).
I criteri diagnostici, contemplati nel DSM V, inquadrano il disturbo se associato a significative perdite di peso, a deficit nutrizionali, ricorso a integrazioni alimentari o problematiche di carattere psichico e di chiusura sociale. Non si considerano aspetti legati a dettami di carattere religioso o legati a particolari tradizioni.
Si tratta di una tendenza molto diffusa tra i piccoli che, per motivazioni varie e ancora da comprendere del tutto, si ostinano a non mangiare alcuni cibi. Qualche decennio or sono, tale atteggiamento si definiva “schizzinoso” o “schifiltoso” e, spesso, migliorava con il trascorrere del tempo. Una ragione ovvia, soprattutto se confrontata con la scarsissima disponibilità alimentare del dopoguerra. Ricalca, questa, l’oscillare a cui si è pervenuti, tra severità e permissivismo: dall’“oggi si mangia questo o niente!” al “cosa vuoi da mangiare?” (stile menu da ristorante).
La Fondazione Veronesi nel marzo 2023 ha indicato una serie di dati interessanti. Si legge: “Tra i disturbi psichiatrici legati al cibo questo è il più trasmissibile per eredità. Addirittura nel 79 per cento dei casi. […] La prevalenza di questa patologia va dall’1 al 5 per cento della popolazione ed è diffusa almeno quanto l’autismo e il disturbo di deficit/iperattività (Adhd)”.
La selettività e le ristrettezze forzate, subite dai nonni per le difficoltà economiche postbelliche, potrebbero aver costituito la base ereditaria (dimostrata come molto alta) del disturbo.
Occorre evitare di creare sensi di colpa nel bambino poiché tale disturbo presenta una forte componente genetica.
Gli studi hanno dimostrato la comorbilità della selettività alimentare, in termini di ripetitività, di stereotipia e ridotte relazioni sociali, con lo spettro autistico. In alcuni casi, il problema è espressione di una situazione familiare vissuta con disagio o di difficoltà personali difficili da inquadrare, sia per ritrosia emotiva sia per un’età ancora acerba. Alcune volte, la causa può celarsi in un episodio traumatico o un ricordo spiacevole associato all’alimento.
In media, ogni 4 bambini con disturbo ARFID, 2,5 circa sono maschi. Il paziente non si pone problemi di peso, di comportamenti compensativi o di immagine corporea, come avviene per l’anoressia, la bulimia e il disturbo del dismorfismo corporeo.
Così Papa Francesco durante l’Udienza Generale del 10 gennaio scorso “In tutto il suo ministero Gesù appare come un profeta molto diverso dal Battista: se Giovanni è ricordato per la sua ascesi – mangiava quello che trovava nel deserto –, Gesù è invece il Messia che spesso vediamo a tavola. […] In realtà – insegna Gesù – non è ciò che entra nell’uomo a contaminarlo, ma ciò che esce dal suo cuore. E così dicendo ‘rendeva puri tutti gli alimenti’. […] L’alimentazione è la manifestazione di qualcosa di interiore: la predisposizione all’equilibrio o la smodatezza; la capacità di ringraziare oppure l’arrogante pretesa di autonomia; l’empatia di chi sa condividere il cibo con il bisognoso, oppure l’egoismo di chi accumula tutto per sé”.
Non si tratta di facile retorica ma la “fame” così diffusa, purtroppo, nel mondo, non contempla, nelle aree disagiate, problematiche di rifiuto o di scelta. Ileana Gervasi, dietista, è l’autrice del volume “A tavola senza battaglie” (sottotitolo “Come crescere bambini che amano mangiare bene”), pubblicato da “Red Edizioni” nel giugno 2022. Parte dell’estratto recita: “I bambini, infatti, nascono con un ‘nutrizionista interiore’ che li guida ad approcciarsi al cibo in maniera intuitiva. Il compito del genitore è preservare questo meccanismo promuovendo un’educazione alimentare senza giudizi, premi o punizioni e alimenti da meritare o demonizzare. Insegnare a riconoscere, validare, rispettare la fame e la sazietà è fondamentale”.
Il comportamento è appreso sin dall’infanzia e, in molti casi, seppur attenuato, tende a rimanere anche in età adolescenziale e adulta.
Tra le altre motivazioni vi è, inevitabilmente, una questione di sapori e odori che non invitano il piccolo a consumare. L’avversione non si manifesta in qualità di capriccio ma attraverso un senso di nausea che si scatena alla sola visione o al solo sentire l’odore del cibo in questione.
Spesso, si è portati a considerare, tra i motivi, anche un sottile timore della persona a introdurre alimenti non di sua fiducia, su cui nutre dubbi a livello estetico e salutistico. Tale ultima ritrosia, in ogni caso, non può essere presente nell’infanzia.
Occorre mantenere l’equilibrio tra una banalizzazione, sul paradigma dello schizzinoso, e un’esagerazione, su quello del disturbo nutritivo con compromissione psicofisica. Il confine tra la selezione e la patologia deve rimaner comunque netto: l’abitudine a consumare gli stessi alimenti e a evitare altri, è una caratteristica individuale che, se non condotta a livelli estremi, di privazione alimentare, di disagio mentale e di comportamenti sconsiderati, non comporta un problema.
Si tratta di una forma di evitamento: non fisica, spaziale o relazionale bensì materiale, legata al cibo. Alcune avversioni alle pietanze, in effetti, sono molto diffuse fra (quasi) tutti i bambini. Una, in particolare, riguarda le verdure. La scienza si è chiesta il motivo di tale repulsione. Alcuni studiosi ricollegano la spiegazione alla presenza di maggiori papille gustative, rispetto all’adulto, che, quindi, motiverebbero un atteggiamento più esigente. Altre interpretazioni concernono un’ancestrale ritrosia verso i vegetali, considerati, da millenni, come possibili fonti di tossicità. Il sapore amaro delle verdure potrebbe chiarire, ulteriormente, il perché di cotanta avversione.
Del resto, nessuno è esente dalla restrittività: ognuno presenta delle preferenze e, al tempo stesso, un’avversione per alcuni cibi. Nel momento in cui la restrizione fosse eccessiva e pregiudizievole, si creerebbero le circostanze tipiche di un disturbo.
Una strategia funzionale è quella di avvicinare il bambino, anche in forma di gioco o di preparazione del piatto, a quelle sostanze da lui viste con sospetto. Tale conoscenza, tattile, sensoriale potrebbe ridurre o annullare la sensibilità avversa.
È opportuna anche una reazione composta da parte dei genitori, evitando inutili preoccupazioni o diagnosi “fai da te”, affrettate e non supportate da un problema reale.
L’atteggiamento genitoriale svolge un ruolo fondamentale: se permissivo, può giustificare il rifiuto del figlio; se severo, con minacce e attraverso sensi di colpa, per malesseri conseguenti a cui andrebbero incontro madre e padre, può contribuire ad accrescere il fenomeno.
È importante considerare come l’alimentazione sia uno specchio dell’autonomia che il piccolo inizia a sperimentare, anche attraverso importanti decisioni sul cibo, sul desiderio e la voglia di novità. L’atteggiamento dinanzi al mondo può svilupparsi in apertura, in piena curiosità oppure attraverso un comportamento prudente, quasi difficoltoso, al limite del timore.
L’obiettivo, del giovane paziente e dei suoi genitori, è di introdurre, gradualmente, altri alimenti.
L’omologazione sociale a cui si devono prestare i giovanissimi può costituire un aspetto indirettamente positivo, nel “convincere” il giovane a sperimentare, assaggiare i cibi proposti e di moda, pena la bollatura dei pari e l’essere definito “diverso”.
L’adolescenza conduce a un confronto con la selettività e le restrittività poiché il giovane comprende che i propri limiti, ingiustificati, possano costituire una difficoltà relazionale, nelle occasioni in cui si mangia insieme, a casa o al ristorante. Il giovane, inoltre, sa come tale limite potrebbe essere dannoso a livello di salute. Va, quindi, sottolineata, l’esperienza di chi, a fatica, lavora per introdurre, periodicamente, un nuovo alimento, allargando, quindi, lo spettro dei suoi consumi: non si arrende, non accetta la situazione e cerca di risolverla.
Per molti, la selettività non è frutto di capriccio o snobismo, quanto, piuttosto, un problema difficile da risolvere, una dura lotta contro se stessi (una richiesta d’aiuto spesso non compresa) per cercare di essere accettato, anche in questo, a livello sociale.