Diritti violati e crisi alimentare: l’emergenza in Cisgiordania

Cisgiordania AcF

Foto di Cole Keister su Unsplash

Un lembo di terra incastonato tra le rive del Giordano e piane aride lontane dal mare. Tanto piccolo quanto decisivo nei delicati equilibri mediorientali. Eppure, nell’ambito esteso di un conflitto secolare, quasi dimenticato nel quadro dell’informazione mainstream, se non per singoli eventi che lo riguardano in modo diretto. La Cisgiordania, come gli altri noti come Territori palestinesi, rappresenta un caso a sé stante nel complesso contesto geopolitico della fascia mediorientale. Tuttavia, interconnesso agli altri dalla storia stessa dell’area rivendicata dal popolo palestinese, sotto l’egida israeliana dalla Guerra dei Sei giorni del 1967. Oltre mezzo secolo di contesa, a tratti feroce, che ha prodotto negli anni un forte dislivello sociale per quel che riguarda i villaggi abitati da popolazione di origine palestinese.

La crisi in Cisgiordania

Al netto di quanto previsto dagli Accordi di Oslo del 1993, che attribuirono la Cisgiordania a un controllo paritario tra Israele e Autorità Nazionale Palestinese, la rivendicazione israeliana si è fatta più forte in anni recenti, con tanto di incremento pressoché costante delle colonie (a oggi quasi 300) a far da contraltare ai centri abitati palestinesi già esistenti. Un quadro etnico meno definito, quindi, rispetto all’epoca del controllo giordano e, di per sé, un ulteriore elemento di destabilizzazione a fronte di una presenza israeliana via via più marcata e non solo da un punto di vista militare. Una condizione che, anche in anni estremamente recenti, ha contribuito a minare ulteriormente la situazione già abbondantemente compromessa della popolazione palestinese locale, alle prese con un’emergenza umanitaria che, secondo i dati delle Nazioni Unite, riguarda al momento 2,1 milioni di persone tra le 5,3 milioni che figurano come popolazione palestinese. Ben 750 mila di queste si trovano in Cisgiordania, dove la sostanziale lontananza dalle zone centrali del conflitto in atto tra Israele e Hamas ha reso altrettanto urgenti misure di contrasto all’emergenza.

L’operazione di Azione contro la Fame

Tra le associazioni umanitarie attive sul territorio, Azione contro la Fame ha superato i venti anni di attività. La prima missione in Cisgiordania risale infatti al 2002, come rafforzamento delle campagne operative già in atto in Medio Oriente e che, a partire dal 2005, avrebbero interessato anche la Striscia di Gaza. Complessivamente, sono 800 mila le persone aiutate tramite la fornitura dei bisogni primari, ovvero il 40% della popolazione. “Come Azione contro la Fame – ha spiegato il presidente Simone Garroni – lavoriamo in Cisgiordania dal 2002. Supportiamo le famiglie sfollate con beni essenziali e servizi di approvvigionamento idrico e igienico-sanitari, ma anche offrendo loro il supporto e gli strumenti di cui hanno bisogno per coltivare e ricostruire la propria autonomia alimentare”. Chiaramente, la maggior vicinanza al teatro centrale dei conflitti (incluso quello più recente) tra Israele e Hamas, ha reso la Striscia centrale nel processo di aiuto alla popolazione: “Progetti di sviluppo agricolo sono attivi anche a Gaza, nonostante le enormi difficoltà del conflitto: è essenziale la produzione alimentare non si fermi”.

Aiuti diretti

Il sostegno, dunque, passa da un apporto di tipo diretto. In un contesto di forte criticità anche nella gestione dei vari settori della produttività, è difficile trovare mezzi e sostegni adeguati a una prima maturazione del welfare sociale. Ed è tutt’altro che raro come l’aiuto umanitario rappresenti, spesso, l’unica fonte di sostentamento reale per la popolazione palestinese. “Le persone sfollate in questo momento devono affrontare enormi difficoltà, tra cui trovare cibo e acqua sufficienti, un riparo adeguato e un letto su cui riposare. Come Azione contro la Fame, sin dal primo giorno dell’emergenza ci siamo attivati per rispondere tempestivamente allo sfollamento di migliaia di famiglie, fornendo beni di prima necessità”. È tuttavia chiaro che anche l’aiuto umanitario debba fare i conti con fattori esterni, a cominciare dalla presenza, per quel che riguarda la Cisgiordania, di forze militari. Per quel che riguarda Gaza, invece, “il blocco imposto da Israele rimane il più grande ostacolo alla ripresa economica, allo sviluppo e alla realizzazione dei diritti umani. Il blocco e i continui shock soffocano le opportunità di lavoro e costringono i palestinesi a dipendere dagli aiuti umanitari”. Il classico circolo vizioso, innescato dalla guerra e da essa nutrito. Fino a oggi e, forse, anche nel prossimo futuro.

Damiano Mattana: